Ringrazio Beppe Damascelli che mi ha spedito questi tre articoli. Sul terzo , quello dei macchinari, ho da dire che come ho scritto in passato i generatori non "passano" facilmente. Lo so, perchè attraverso il centro Peres ho cercato di farne "passare" ed è una gran fatica. Secondo me non si tratta, come per i gelati, di malvagità umana , ma di pura , abissale, spaventosa , semplice , idiozia. Non siamo un paese malvagio , siamo un paese cretino.
Sono le sei di mattina , mi son svegliata alle 5 e 30 perchè ho a dormire i tre figli di mia figlia e il loro cane, poi arriveranno i loro genitori e sabato anche mio figlio Eyal, moglie e gemelle più qualche ospite.
Son due giorni che cucino e adesso porto fuori il cane.
E adesso passo alle cose serie.
Ecco in italiano l'eccellente articolo di Uri Avnery (da me inviato in inglese il 30/6). Ignoravo che questa traduzione era già uscita sul Manifesto del 27/6/10, insieme alle due schede qui pure riprodotte e alla breve nota polemica Roma-Tel Aviv (che riporto e condivido).
Beppe
APERTURA | di Uri Avnery
L'ipocrisia su Shalit
Il soldato imprigionato da Hamas a Gaza è il simbolo dell'incapacità dei politici israeliani di decidere uno scambio di prigionieri
Scrivo queste righe davanti a una finestra che dà sul blu del mar Mediterraneo, e penso a quell'uomo rinchiuso non troppo distante da questo mare, a qualche decina di chilometri da qui. Gilad Shalit può guardare lo stesso mare dalla sua finestra? Ha una finestra davanti? Come sta? Come lo trattano?
È imprigionato da 4 anni. Shalit è diventato un simbolo vivente, un simbolo della realtà israeliana e dell'incapacità dei nostri leader di prendere una decisione, della loro viltà morale e politica. Se ci fosse stata la possibilità di liberare Shalit manu militari, il governo non se la sarebbe fatta scappare: gli israeliani preferiscono risolvere i problemi con la forza anziché compiere atti che possono essere letti come segni di debolezza.
Il salvataggio degli ostaggi a Entebbe nel 1976 è considerata una delle imprese più gloriose nella storia di Israele, anche se mancò un pelo al fallimento. Le vite di 105 ostaggi e soldati furono messe in gioco, ma alla fine fu un successo. In altri casi, invece, l'azzardo non riuscì. A Monaco nel 1972 per esempio, quando la posta in gioco era la vita degli atleti israeliani alle olimpiadi. O a Ma'alot nel 1974, quando la posta in gioco era vita di bambini di una scuola elementare. O il tentativo di liberare il soldato Nachschon Wachsman nel '94.
Se ci fosse stata qualche possibilità di liberare Shalit con la forza, gli israeliani avrebbero messo a rischio la sua vita, e probabilmente avrebbero fallito. Fortunatamente, per lui, la possibilità non si è presentata. Questo è un fatto su cui insistere. I nostri servizi segreti hanno centinaia di collaboratori nella Striscia di Gaza e sistemi di sorveglianza altamente tecnologici. Eppure pare non si sia ottenuto nessuna notizia su Shalit. Come è riuscita Hamas in questo obiettivo? Intanto ha impedito qualsiasi contatto con il prigioniero, nessun incontro con la Croce rossa internazionale o con personalità di spicco straniere. Solo due brevi video, quasi nessuna lettera. Il problema potrebbe essere superato se il nostro governo fosse pronto ad assicurare che non ha alcuna intenzione di liberare il prigioniero con la forza, in cambio dell'impegno di Hamas, magari garantito dagli Usa, a farlo visitare dalla Croce rossa. Senza questo accordo, le dichiarazioni moraleggianti di statisti stranieri su un possibile intervento della Croce rossa sono parole vuote e non meno ipocrite le richieste da parte di personalità straniere di «liberare i soldati sequestrati». Musica per le orecchie degli israeliani, che però non tiene conto che il centro della questione è uno scambio di prigionieri.
Gilad Shalit è vivo, un giovane con un destino che suscita forti emozioni umanitarie. Ma lo stesso vale per i soldati palestinesi. Anche loro sono vivi, e anche il loro destino scatena emozioni umanitarie. Sono persone le cui vite si stanno consumando all'interno di una prigione. Tra di loro ci sono leader politici puniti per fare parte di questa o quella organizzazione. Tra di loro ci sono persone che per gli israeliani «hanno le mani sporche di sangue ebreo» e per i palestinesi sono eroi nazionali che hanno sacrificato la loro libertà per la liberazione del loro popolo.
Il prezzo chiesto da Hamas può sembrare esagerato, mille prigionieri in cambio di Shalit. Ma Israele ha già pagato un prezzo analogo in passato, ed è diventato una sorta di rapporto standard. Hamas non può accettare il ribasso senza perdere la faccia. Le migliaia di prigionieri palestinesi hanno famiglie, padri, madri, mariti, mogli e figli, fratelli e sorelle. Esattamente come Gilad Shalit. Anche loro chiedono con forza e fanno pressione. Hamas non può ignorarli. Hamas ha fissato un prezzo secondo i precedenti. Da allora la richiesta non è cambiata. Senza dubbio un tale accordo rafforzerebbe Hamas. E verrebbe visto come la conferma del mantra «Israele capisce solo il linguaggio della forza».
Perciò la questione è o sì o no. Il sì significherebbe un colpo per Mahmoud Abbas, la cui linea conciliante non ha portato al rilascio di un solo prigioniero palestinese importante. Gli Usa hanno posto il veto sull'accordo perché rafforzerebbe Hamas, considerata un'organizzazione terroristica, e indebolirebbe Abbas, che considerano il loro uomo. Il no significherebbe la prigionia a vita per Shalit, e un pericolo per la sua vita.
Per 4 anni i nostri leader non hanno saputo decidere, così come non sono in grado di decidere per le questioni importanti (per esempio, due stati o uno stato di apartheid? Pace o insediamenti? Fare un accordo di pace con Abbas o negoziare con Hamas?). Incapaci di prendere una decisione si sono usati vari espedienti. Fra gli altri, l'affermazione che l'embargo di Gaza servisse per liberare Shalit, fin dall'inizio un pretesto falso. Il blocco è stato imposto per costringere la popolazione a rovesciare il regime di Hamas che aveva vinto le elezioni. Il legame con Shalit è servito solo come un alibi penoso.
Ora il blocco è stato in parte revocato. Una grande vittoria della flottiglia umanitaria, che i suoi organizzatori neppure si sognavano. La pressione internazionale ha reso inevitabile questo passo come effetto della stupida decisione di attaccare la nave turca. Il governo ha dovuto riconoscere che «il blocco non ha aiutato a liberare Shalit». I genitori di Shalit hanno protestato. Per loro c'è una connessione diretta tra il blocco e la sorte di loro figlio. Ma è chiaro che, dovendo rassegnarsi a cedere all'opinione pubblica internazionale e a revocare in parte il blocco, il premier Netanyahu e il ministro Barak non hanno pensato per nulla a Shalit.
I familiari di Shalit sono angosciati. Si può comprenderli, ma questo non vuol dire essere d'accordo con loro. Si sbagliano quando criticano la sospensione del blocco e quando chiedono che ai prigionieri legati ad Hamas detenuti in Israele sia proibito di ricevere visita dai loro familiari. Delle due, l'una. Se Noam Shalit, il padre, chiede che i mille prigionieri affiliati a Hamas vengano rilasciati in cambio della liberazione del figlio, non può allo stesso tempo sostenere la persecuzione dei prigionieri che fanno parte di Hamas. Non può chiedere un trattamento umano per il figlio, e nel contempo giustificare un trattamento disumano per la popolazione di Gaza. Questa posizione disorienta l'opinione pubblica e minaccia la campagna per liberare Gilad.
Il messaggio deve essere semplice, chiaro e diretto, e indirizzato a Netanyahu: decidere di fare lo scambio di prigionieri una volta per tutte. La sua incapacità di prendere una decisione rivela tutta la sua incompetenza come leader. Uno scenario terrorizzante. Se è incapace di prendere una decisione definitiva sulla sorte del soldato Shalit, come può prendere una decisione sulla sorte di tutti noi, non per un anno ma per le generazioni a venire?
Trad. di Chiara Zappalà
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TAGLIO MEDIO | di Paolo Di Motoli
L'IDEOLOGIA
Altalena tra Torah e Likud
L'applicazione del concetto di fondamentalismo al mondo ebraico richiede una spiegazione. Utilizzando il metodo delle scienze sociali, una mappa per individuare chi sono i fondamentalisti ci è fornita dal «Fundamentalism project» dell'Università di Chicago. Negli anni '90 sono stati pubblicati cinque volumi collettivi (col contribuito di politologi, sociologi, storici delle religioni) con una serie di casi corredati da conclusioni teoriche: i fondamentalisti segnano confini netti con il mondo esterno, si dotano di precise norme comportamentali, hanno un'organizzazione autoritaria e fanno parte di un gruppo per elezione o scelta divina.
Il fondamentalismo è una reazione alla marginalizzazione delle religione nella società, ha un approccio selettivo con la modernità (ne rifiuta i valori ma ne accetta alcuni vantaggi, molto spesso la tecnologia) è dotato di manicheismo morale e crede nella superiorità delle legge divina su quella civile. Questo aspetto viene sottolineato da Enzo Pace e Renzo Guolo («I fondamentalismi») che hanno spiegato come i fondamentalisti siano interessati al potere nella Polis. Un potere che nel caso degli haredim in Israele può anche essere una forza che si dispiega in un enclave religiosa all'interno della società secolarizzata.
Ilan Greilsammer (Les Hommes en noir) accetta il termine fondamentalismo mentre il suo collega Menahem Klein non esita a comparare gli haredim lituani con i fondamentalisti sunniti. Haredim significa in ebraico «trepidanti» termine che deriva dal verso «ascoltate la parola del signore, voi che trepidate alla sua parola» (Isaia 62:5). Sono gruppi ortodossi che si dedicano al rispetto delle 613 regole, Mitzvot, derivanti dalla Torah, e che si oppongono in gran parte allo stato di Israele, anche se, come ci ricorda Luca Ozzano in «Fondamentalismo e democrazia», a partire dal 1996 (primo governo Netanyahu) si sono avvicinati alle posizioni nazionaliste nel nome del «Pikuah nefesh», l'imperativo di «non mettere in pericolo vite ebraiche».
L'idea di salvaguardia della vita ebraica dà atto a posizioni diverse e i partiti haredi di orientamento pacifista considerano l'annessione delle terre conquistate con la guerra del 1967 la causa dei pericoli che gli ebrei corrono in Israele. Ciò che più conta per questi movimenti è l'osservanza della Torah. Va ricordato che gruppi come i Satmar Hasidim, che prendono il nome dalla città di Satu Mare in Romania, l'Edah Haredit di Gerusalemme e il Neturei Karta, i guardiani della città, sono radicalmente antisionisti.
Parti del mondo ortodosso andarono però verso destra proprio nel 1977, con l'elezione del primo governo del Likud di Menachem Begin affiancandosi al Mafdal (il partito nazionale religioso che diventò il motore degli insediamenti). Agudat Israel sosteneva indirettamente il governo.
Il mondo ortodosso amava Begin per il suo attaccamento alla tradizione e alla religione e questi si impegnò a mantenere lo status quo nelle materie religiose con il rispetto rigoroso dello Shabbat e i divieti sulla pornografia. Begin concesse poi: la restrizione della possibilità di autopsie per l'inviolabilità dei cadaveri secondo i dettami religiosi; il divieto di aborto, perché uccidere gli embrioni è un crimine; la possibilità per tutte le donne di evitare il servizio militare, luogo di possibili contatti sessuali con uomini; il divieto di scavi archeologici in zone dove si sospettava la presenza di antichi cimiteri ebraici.
L'Agudat si spaccò in due tronconi etnici: nel 1983 nacque lo Shas sefardita, stufo della guida sempre aschenazita dei partiti di governo; nel 1988 il Degel Torah lituano.
Il gruppo Habad, il cui centro era la città russa di Lyubavichi, da cui proviene il nome alternativo dei militanti, i Lubavich, è una sorta di passaggio tra i gruppi di enclave e quelli nazional-religiosi.
Si assiste al paradosso di un movimento che rifiuta il sionismo, non riconosce la superiorità della legge civile e che in nome del Pikuah nefesh sostiene che non si devono cedere i territori (Shas e Degel sono contrari all'annessione). Il loro appoggio consentì nel 1988 all'Agudat di triplicare i consensi.
Una parte consistente degli ortodossi ha favorito la vittoria di Netanyahu alle elezioni del 1996 agitando la minaccia dei valori secolari portati avanti dalla sinistra e lo ha appoggiato anche di recente. Da quando è diventata egemone la destra si è dimostrata molto più disponibile ad accogliere le istanze ortodosse sia per ragioni di opportunità politica che per ragioni identitarie.
Università di Torino, autore de «I mastini della terra. La destra israeliana dalle origini all'egemonia»
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INTERVISTA | di Mi. Gio. - GERUSALEMME
CAMBIAMENTI
«Internet e tv E la comunità si scopre fragile»
Tra i principali studiosi della comunità religiosa ultraortodossa, il professor Menachem Klein non crede che gli ebrei haredim abbiamo come obiettivo a lungo termine il controllo dello Stato di Israele. «Che neppure riconoscono», aggiunge il docente universitario, autore di testi sull'argomento tradotti in varie lingue.
Gli ultraortodossi rifiutano la legge dello Stato?
Non esattamente. Facciamo una premessa. La società israeliana è divisa in tre parti di proporzioni simili: 1/3 laica, 1/3 conservatrice, 1/3 ultraortodossa. Una coalizione di tre minoranze. Gli ultraortodossi senza dubbio privilegiano quella che possiamo definire «la legge di dio», ma non contestano ogni punto della legge dello Stato, chiedono piuttosto che quest'ultima non regoli questioni che, dal loro punto di vista, appartengono solo alla religione e sono frutto di tradizioni e modi di vita molti antichi. Vogliono difendere la loro esclusività e usano la forza dei numeri per protestare. Ma così facendo mettono in allarme i laici che, a loro volta, temono di perdere il sistema di vita in cui credono. Da ciò nascono conflitti talvolta durissimi che però, col passare del tempo, tendono a placarsi rendendo evidente che le paure degli uni e degli altri sono esagerate.
In futuro la percentuale di haredim sul totale della popolazione crescerà. Peserà sull'equilibrio da lei descritto?
Le previsioni dei demografi sono credibili, ma non tengono conto di fenomeni importanti che attraversano la comunità ultraortodossa. È vero, i religiosi fanno tanti figli che però non rimarranno necessariamente degli ebrei ultraortodossi. Le ultime indagini sociali dicono che su dieci bambini di famiglie religiose, da adulti due o tre abbandoneranno la vita da ultraortodosso, e altri due o tre finiranno per aderire al nazionalismo religioso che è meno tradizionale e più moderno. Inoltre sul piano dei comportamenti occorre considerare che le rigide imposizioni dei rabbini non sempre vengono rispettate. La televisione ad esempio è proibita, eppure aumenta il numero di ragazzi ed adulti che in segreto la guardano. E lo stesso vale per internet. Le donne sono le più esposte alla modernità, perché molte di loro lavorano fuori dalle loro comunità. Molti mariti studiano soltanto e le donne lavorando entrano a contatto con un mondo diverso, che in qualche modo le cambia. Perciò quella degli ebrei haredim è una crescita sfilacciata, che perde pezzi, non destinata, a mio avviso, a raggiungere le percentuali indicate dai demografi.
Israele avrà mai un presidente ultraortodosso?
Non credo. Prima di tutto perché per motivi religiosi gli ebrei haredim non credono allo Stato di Israele nella forma nata nel 1948. In ogni caso quell'ipotetico presidente haredi dovrebbe diventare una persona molto diversa, in grado di parlare a nome di tutti e per tutti. Una possibilità che ritengo remota.
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Scrive Haaretz che 7 macchine a ossigeno donate dalla Norvegia a ospedali palestinesi sono state «confiscate» dagli israeliani perché «i generatori attaccati alle macchine potrebbero essere usati non per fini medici». Delle 7 macchine, 6 erano per ospedali nella West Bank del conciliante Abu Mazen e 1 per la Striscia del barbaro Hamas. Confiscate tutte. Così imparano. Un gesto in linea con la natura democratica e umanitaria di Israele fatta propria, senza se e senza ma, da buona parte della comunità ebraica italiana cui sembra non fare più schifo lanciarsi in azioni squadriste. Come quelle di cui storicamente gli ebrei sono stati vittime da parte dello squadrismo fascista e come quella di mercoledì sera a Roma contro un gruppo di pacifici manifestanti che ricordavano che oltre al soldato Shalit forse andrebbero liberati anche gli 11 mila palestinesi, fra cui donne e bambini, sequestrati da anni nelle carceri israeliane in «detenzione amministrativa». Un'azione di squadrismo fascista liquidata dal sindaco (ex? post?) fascista e dai giornali obiettivi come «una rissa».