Secondo una recente indagine di J-street lo Stato d’Israele è al settimo posto tra le preoccupazioni degli ebrei americani; il rapporto curato dalla nostra associazione, “Cittadini del mondo, un po’ preoccupati” (a cura di Saul Meghnagi, Giuntina) descrive un quadro simile tra i giovani ebrei italiani: il rapporto con Israele è certamente molto stretto, ma sul piano delle prospettive i giovani sembrano avere altre priorità. La settimana scorsa Gadi Luzzatto Voghera ha ribadito un concetto che abbiamo spesso sostenuto su queste colonne: l’argomento “Israele” viene usato da molti leader ebrei per conquistare un consenso all’interno delle comunità, con la conseguenza negativa di dividere in fazioni contrapposte. Certo, non tutti gli ebrei la pensano allo stesso modo sulle scelte politiche d’Israele, e del resto sarebbe strano se ci fosse una Diaspora monolitica di fronte alla grande varietà di posizioni della società israeliana. Tutti gli ebrei sono legatissimi allo stato d’Israele e temono per la sua sopravvivenza; al tempo stesso divergono su quali siano le misure più utili a garantirne la sicurezza. Sbaglia chi demonizza o insulta chi la pensa diversamente, non solo perché si mostra incivile ma soprattutto perché quest’atteggiamento non è utile.
Come spesso ripetono i nostri rabbini, sono altri i problemi veri delle nostre comunità, e l’esito del conflitto mediorientale non dipende in alcun modo da noi. Alla vigilia di Kippur la mia proposta è questa: per ogni discussione o articolo su Israele, ognuno di noi si impegna a prendere una lezione di ebraico. Così, tanto per sapere di che cosa stiamo parlando e sprecare un po’ meno fiato.
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas
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