lunedì 19 novembre 2012
attesa
altra giornata di attesa.
attesa di cosa?
è come se fossimo tutti ad attendere che succeda qualcosa.
tregua? cessate il fuoco?
missile ?
ogni rumore ti innervosisce.
me ne sto in casa a scrivere ( sto scrivendo un giallo) l'aria è bella tiepida . si starebbe così bene. i carri armati continuano a scendere verso sud. sabato li ho visti, erano tutti infangati. e se me ne andassi al mare?
ci vado.
sabato 17 novembre 2012
Il leader di Hamas, Jabari, ucciso mentre si discuteva una tregua a lungo termine di Nir Hasson - 17/11/2012
Ore prima di essere ucciso, l’uomo forte di Hamas, Ahmed Jabari, aveva ricevuto la bozza di un accordo di tregua permanente con Israele, che comprendeva meccanismi per mantenere il cessate il fuoco nel caso di scontri tra Israele e le fazioni della Striscia di Gaza. La notizia viene dall’attivista pacifista israeliano Gershon Baskin, che ha contribuito ha mediare tra Israele e Hamas nelle trattative per il rilascio di Gilad Shalit e da allora ha mantenuto un rapporto con dirigenti di Hamas.
Baskin ha dichiarato giovedì ad Haaretz che alti dirigenti israeliani erano al corrente dei suoi contatti con Hamas e i servizi segreti egiziani, mirati a formulare una tregua permanente ma che, ciò nonostante, essi hanno approvato l’assassinio.
“Penso che abbiano commesso un errore strategico,” ha affermato Baskin, un errore “che costerà la vita di un grande numero di innocenti di entrambe le parti.”
“Questo sangue avrebbe potuto essere risparmiato. Quelli che hanno preso la decisione devono essere giudicati dagli elettori, ma, con mio rammarico, otterranno più voti proprio per questo,” ha aggiunto.
Baskin aveva fatto la conoscenza di Jabari quando aveva operato come mediatori tra David Meidin, il rappresentante israeliano nei negoziati per Shalit, e Jabari. “Jabari era l’onnipotente in carica. Riceveva sempre i messaggi tramite un terzo, Razi Hamad di Hamas, che lo chiamava Mister J.”.
Baskin aveva inviato messaggi quotidiani per mesi prima della formulazione dell’accordo. Aveva mantenuto aperto il canale di comunicazione con Gaza anche dopo il completamento dell’accordo su Shalit.
Secondo Baskin, negli ultimi due anni Jabari aveva interiorizzato la consapevolezza che le tornate di ostilità con Israele non erano di beneficio né ad Hamas né agli abitanti della Striscia di Gaza e causavano soltanto sofferenze, e aveva agito molte volte per evitare di lanci di Hamas contro Israele.
Ha affermato che anche quando Hamas era stato forzato a partecipare al lancio di razzi, i suoi razzi finivano sempre in spazi israeliani aperti. “E ciò era voluto,” ha chiarito Baskin.
Nei mesi recenti Baskin è stato continuamente in contatto con dirigenti di Hamas e anche con i servizi segreti egiziani, nonché con dirigenti di Israele, i cui nomi rifiuta di divulgare. Alcuni mesi fa Baskin ha mostrato al ministro della difesa, Ehud Barak, una bozza dell’accordo e sulla base di tale bozza è stato creato un comitato interministeriale sul problema. L’accordo doveva essere la base per una tregua permanente tra Israele e Hamas, che avrebbe prevenuto le ripetute tornate di scontri.
“In Israele,” Baskin ha detto, “hanno deciso di non decidere e nei mesi recenti ho preso l’iniziativa di sollecitare di nuovo.” Nelle settimane recenti egli ha rinnovato il contatto con Hamas e con l’Egitto e proprio questa settimana era in Egitto a incontrare personaggi di vertice del sistema dei servizi segreti e con un rappresentante di Hamas. Egli afferma di essersi formato l’impressione che la pressione esercitata dagli egiziani sui palestinesi perché smettano gli attacchi sia stata seria e sincera.
“Era destinato a morire; non un angelo né un giusto uomo di pace,” ha detto Baskin di Jabari e dei suoi sentimenti dopo l’uccisione, “ma il suo assassinio ha ucciso anche la possibilità di ottenere una tregua e anche la capacità di operare dei mediatori egiziani. Dopo l’assassinio ho parlato, arrabbiato, con quelli di Israele e loro mi hanno detto: “Ti abbiamo sentito e stiamo chiamandoti per chiedere se hai sentito qualcosa dagli egiziani o da Gaza.”
Dopo l’assassinio Baskin ha avuto contatti con gli egiziani ma non con i palestinesi. Secondo lui, gli egiziani sono molto razionali. Hanno detto che è necessario lasciare che si asciughi il sangue fresco. “La gente dei servizi segreti egiziani sta facendo quel che sta facendo con il permesso e l’autorizzazione del regime e apparentemente è gente che crede molto in questo lavoro,” afferma.
“Io, fondamentalmente, sono triste. E’ una cosa triste per me. Sto assistendo all’uccisione di persone ed è questo a rendermi triste. Mi dico che con ogni persona che è uccisa stiamo procreando la prossima generazione di odiatori e terroristi,” aggiunge Baskin.
e rieccomi al blog.
Siamo a quattro giorni di " guerra" perchè non di vera e propria guerra si tratta....non saprei che nome dare a questa strana situazione. mi sembra una guerra finta da cui nessuna delle parti guadagnerà qualcosa, neanche il minimo guadagno. ( i morti veri invece ci sono , a Gaza e Kiriat Malachi ,e loro di certo hanno già perso al 100%)
e naturalmente non è per niente finta per chi a Beer Sheva, Nahal Oz o Ashdod ( quest'ultima è praticamente qui dietro l'angolo da Tel Aviv ) passa giornate intiere in rifugio. e un pò neanche per me.
Ma non ho paura. Questione di età , penso. E poi non ho bambini piccoli di cui preoccuparmi.
Durante la guerra del golfo, vent'anni fa, tutti gli altri membri della famiglia ( due figli e un marito) erano stati arruolati, ed ero sola con Joni.
Cmq non ho rifugio, non ho una stanza, dico una, che non abbia finestre, quindi anche se avessi paura neanche volendo non saprei dove rifugiarmi
Oggi, due giorni dopo gli allarmi e i missili su tel aviv - che per fortuna sono tutti finiti in mare vicino a Jaffa - Tel Aviv sembra normale: il teatro dietro casa mia funziona normalmente , le strade sono quasi normalmente affollate, in spiaggia stamattina malgrado il cielo grigio c'era anche un bel gruppo di italiani Ma normale non è. Come suona l'allarme , la sorpresa ti prende allo stomaco. è un riflesso normale, immagino.
e i politici?
i politici sono gli unici che se la stanno godendosela alla grande passando da una intervista alla radio a una alla televisione , e in più alla vigilia delle elezioni , una vera pacchia, tutto tempo televisivo regalato.
oggi il generale Russo ( bellissimo uomo tra l'altro...) ha detto che questa guerra finta potrebbe continuare ancora settimane.
Io credo di no.
domenica 3 giugno 2012
madonna in israele
Lo dico io non lo dico?
Lo dico . Non li reggo più questi mega star . No, non la reggo , Madonna.
Per una settimana, qui a Tel Aviv , la bionda rock star è stata praticamente la mia vicina di casa e sabato scorso sono persino inceppata sui suoi figli al mare, nella spiaggia di Frishman. Uno biondo, due neri . Si dà il caso, infatti, che la sua vita a Tel Aviv si svolga tutta dietro casa mia tra il centro della Kabalà (in cui l'ho vista entrare , senza sapere che era lei , dopo che i paparazzi, sfiniti, se n'erano ormai andati , a mezzanotte) e l'Hotel Dan di fronte al mare. Ma è stata qui a modo suo: Madonna e i rock star del suo genere, moderni dei, vivono in un mondo parallelo. Un mondo in cui all'interno dello stadio del concerto vengono costruite 34 stanze apposta per loro (compresa una stanza per la sarta personale e la massaggiatrice personale e l'estetista personale e la lavanderia personale e una nursery di 100 metri con ingresso solo dalla stanza della star). Un mondo in cui il contatto con la realtà quotidiana è sempre più flebile, fino a quasi sparire.
Ha detto di credere nella pace, così , in generale. Sacerdotessa della religione in cui lei è la Madonna ha affermato che i suoi fans , in quanto tali, non possono non credere nella pace, così in generale .E ha invitato al concerto tutte , o quasi tutte le ong israelo-palestinesi per la pace. Alcuni non hanno accettato l'invito (ricordando alla regina del pop che in tutte le sue visite in Israele non si era mai e poi mai interessata di pace), quelli che hanno deciso di accettare si sono trovati , seduti nei peggiori posti in assoluto dello stadio, tra 33000 fans urlanti ( una trentina di fans si son persino sentiti male) a godere lo spettacolo dell'ingresso della dea , tra ballerini vestiti da frati, suono di campane, oscure preghiere in ebraico e lei che esce da una croce.
E lo spettacolo è stato naturalmente curato e bello e entusiasmante e straordinario e del tutto vuoto e inutile, e per un attimo questo paese si è sentito come un paese normale , in cui succedono cose normali come l'inizio di un tour internazionale di una star internazionale.
Adesso è partita.
Mi ha scritto un fan di madonna , mio lettore, chiedendomi se ero ad Abu Dhabi.
No , gli ho risposto, sono a Tel Aviv.
E Madonna? Mi ha chiesto.
È come se qui non ci fosse mai stata, ho risposto.
venerdì 20 aprile 2012
una lettera che ho ricevuto ieri, tradotta liberamente e un pò accorciata
Scrivo queste righe dopo quattordici anni in cui sono stato zitto.... cercherò di mettere sulla carta i miei pensieri e i miei sentimenti a proposito dell'incidente avvenuto il 26 febbraio 1998.
Il mio nome è G. L. e suo figlio Yoni è stato il mio amatissimo comandante durante il servizio militare all'avamposto Karkom in Libano.
Ogni anno per il Giorno della Memoria in Israele penso a suo figlio..
Ogni anno mi sono detto che dovevo venire a incontrarmi con voi durante il Memorial Day.
Perchè devo la mia vita a suo figlio .
Vede, è stato lui che mi ha bloccato e non mi ha permesso di salire per primo alla piattaforma di osservazione come gli avevo chiesto, lui che mi ha impedito di essere in una posizione che mi avrebbe ucciso. Lui che è morto al mio posto quel maledetto giorno -.
Sono l'ultima persona che lo ha visto prima della sua morte, il primo a soccorerlo dal ponte di osservazione insieme ad altri combattenti feriti e uccisi.(...)
Poi, al funerale mi hanno permesso di venire. Sono rimasto all'avamposto.
Alcuni giorni dopo, durante i sette giorni di lutto , sono venuto a trovarvi ma certo non vi ricordate di me.
(...) Yoni era un comandante straordinario ,sempre sorridente , allegro, un ragazzo che dava tutto di se ai suoi soldati e ai suoi amici . Sarà sempre ricordato come un ragazzo straordinario, pieno di amore e di valori umani, da lui ho imparato molto e solo grazie a lui sono vivo oggi.
vi auguro fortuna, salute e longevità
venerdì 23 marzo 2012
incidente....
domenica 4 marzo 2012
rieccomi a tel aviv!
.. e fa quasi più freddo che in italia.
certo più che a scicli.
pubblico un'intervista a daniele giannetti che ha appena pubblicato un libro sui campanari di virgoletta
ll mARTEdì:
Daniele Giannetti
Margherita Portelli
Farsi affascinare da un suono, e restituirlo in immagine. Innamorarsi di una tradizione che sopravvive e pensare che sia doveroso documentarla. Fare reportage a una manciata di metri da casa, per dimostrare che il consueto, spesso, è di una bellezza che in nostri occhi si sono disabituati a scorgere. È un osservatore, Daniele Giannetti, e non si offenderà se diciamo che guardare gli riesce forse ancora meglio che scattare. Le foto del 27enne nativo di Fornoli - una pugno d’anime in Lunigiana - e trapiantato a Parma per motivi di studio (Biologia), saranno in esposizione dal 1° al 23 marzo negli spazi dell’Informagiovani di via Melloni, nella mostra «Virgoletta, il borgo dei campanari». Lo abbiamo incontrato.
Di che si tratta?
Virgoletta è un paesino della Lunigiana, uno dei borghi più belli della zona, in cui sopravvive la tradizione di suonare le campane a corda manualmente. Cinque anziani signori, che suonano le campane come veri e propri strumenti, con un repertorio che spazia da Vecchio scarpone a la Piemontesina bella, ma che non hanno idea di come si scriva la musica o di che cosa sia una nota. Cinque tasti, cinque campane, cinque note e, dunque, cinque campanari! Niente alta tecnologia, niente elettronica, ma solo meccanica. Mi sono fatto affascinare da questa tradizione, ho pensato che sarebbe stato il caso di documentarla, perché potesse sopravvivere nella memoria, e così sono andato là, con la mia macchina fotografica, domenica dopo domenica, a scattare foto.
Da lì è nata la mostra?
In realtà dietro la mostra c’è il progetto editoriale. Da qui a breve uscirà infatti un libro di fotografie dal titolo «Virgoletta, il borgo dei campanari», edito da Giacchè. Una gran bella soddisfazione per me, la concretizzazione di un progetto partito un po’ per caso, ma al quale mi sono subito appassionato.
Anche la musica è una tua passione?
In effetti oltre a studiare Biologia all’università frequento il conservatorio: suono il clarinetto.
Che tipo di fotografia prediligi?
Io in realtà sono un fotografo naturalista. Amo scattare foglie, insetti, fiori. Stare nella natura e “cacciare” quei particolari bellissimi che ci offre. Si chiama macrofotografia.
Da quanto tempo scatti?
Praticamente da sempre, iniziai da bambino con le macchine a pellicola perché mio papà era un appassionato. Poi con il tempo sono passato al digitale; ma non amo modificare le foto. La postproduzione deve limitarsi all’essenziale.
Ma il fotografo di professione, ti piacerebbe farlo?
Non nascondo che mi affascina pensare di poter fare della fotografia il mio mestiere, ma non sono sicuro che lo sceglierei come lavoro. E’ un universo sempre più precario, che riserva sempre meno attenzione ai grandi reportage. Purtroppo si dà meno considerazione all’immagine, e l’approccio è troppo sbrigativo.
Il volume con le foto di Daniele Giannetti: «Virgoletta, il borgo dei campanari» (Edizioni Giacché, 2012), sarà nelle librerie da aprile e in vendita a Parma presso "la Bancarella" di Strada Garibaldi.
certo più che a scicli.
pubblico un'intervista a daniele giannetti che ha appena pubblicato un libro sui campanari di virgoletta
ll mARTEdì:
Daniele Giannetti
Margherita Portelli
Farsi affascinare da un suono, e restituirlo in immagine. Innamorarsi di una tradizione che sopravvive e pensare che sia doveroso documentarla. Fare reportage a una manciata di metri da casa, per dimostrare che il consueto, spesso, è di una bellezza che in nostri occhi si sono disabituati a scorgere. È un osservatore, Daniele Giannetti, e non si offenderà se diciamo che guardare gli riesce forse ancora meglio che scattare. Le foto del 27enne nativo di Fornoli - una pugno d’anime in Lunigiana - e trapiantato a Parma per motivi di studio (Biologia), saranno in esposizione dal 1° al 23 marzo negli spazi dell’Informagiovani di via Melloni, nella mostra «Virgoletta, il borgo dei campanari». Lo abbiamo incontrato.
Di che si tratta?
Virgoletta è un paesino della Lunigiana, uno dei borghi più belli della zona, in cui sopravvive la tradizione di suonare le campane a corda manualmente. Cinque anziani signori, che suonano le campane come veri e propri strumenti, con un repertorio che spazia da Vecchio scarpone a la Piemontesina bella, ma che non hanno idea di come si scriva la musica o di che cosa sia una nota. Cinque tasti, cinque campane, cinque note e, dunque, cinque campanari! Niente alta tecnologia, niente elettronica, ma solo meccanica. Mi sono fatto affascinare da questa tradizione, ho pensato che sarebbe stato il caso di documentarla, perché potesse sopravvivere nella memoria, e così sono andato là, con la mia macchina fotografica, domenica dopo domenica, a scattare foto.
Da lì è nata la mostra?
In realtà dietro la mostra c’è il progetto editoriale. Da qui a breve uscirà infatti un libro di fotografie dal titolo «Virgoletta, il borgo dei campanari», edito da Giacchè. Una gran bella soddisfazione per me, la concretizzazione di un progetto partito un po’ per caso, ma al quale mi sono subito appassionato.
Anche la musica è una tua passione?
In effetti oltre a studiare Biologia all’università frequento il conservatorio: suono il clarinetto.
Che tipo di fotografia prediligi?
Io in realtà sono un fotografo naturalista. Amo scattare foglie, insetti, fiori. Stare nella natura e “cacciare” quei particolari bellissimi che ci offre. Si chiama macrofotografia.
Da quanto tempo scatti?
Praticamente da sempre, iniziai da bambino con le macchine a pellicola perché mio papà era un appassionato. Poi con il tempo sono passato al digitale; ma non amo modificare le foto. La postproduzione deve limitarsi all’essenziale.
Ma il fotografo di professione, ti piacerebbe farlo?
Non nascondo che mi affascina pensare di poter fare della fotografia il mio mestiere, ma non sono sicuro che lo sceglierei come lavoro. E’ un universo sempre più precario, che riserva sempre meno attenzione ai grandi reportage. Purtroppo si dà meno considerazione all’immagine, e l’approccio è troppo sbrigativo.
Il volume con le foto di Daniele Giannetti: «Virgoletta, il borgo dei campanari» (Edizioni Giacché, 2012), sarà nelle librerie da aprile e in vendita a Parma presso "la Bancarella" di Strada Garibaldi.
lunedì 13 febbraio 2012
africani in medioriente
.Sepolti nel deserto del Sinai
Da Nigrizia di febbraio 2012: storia di migranti mercificati
Silvia Boarini da Tel Aviv
Molti sono eritrei, ma arrivano anche da altri paesi dell’Africa subsahariana. Cercano di raggiungere Israele, lasciandosi alle spalle oppressione e miseria. Spesso diventano prede di trafficanti di esseri umani e di organi. E la comunità internazionale?
Mary è stupita di sentire ancora il respiro del figlio tra le sue braccia. Era sicura fosse morto, ucciso da una delle pallottole sparate dalle forze egiziane contro i migranti che tentano di raggiungere Israele. Ricorda che gridava: «Abbiamo bisogno di aiuto», e non credeva alle parole del soldato israeliano di fronte a lei che diceva: «Ora sei al sicuro». Era davvero al di là del filo spinato. L’incubo del Sinai finalmente alle sue spalle.
Nei 15 mesi che aveva trascorso nelle mani di Muhammad, uno dei contrabbandieri beduini che controllano il traffico di migranti nel Sinai, aveva subito pestaggi, era stata stuprata e aveva visto suo figlio, di 2 anni, picchiato e tenuto semisepolto nella sabbia. «È dura nel Sinai», dice con lo sguardo nel vuoto. Cerca parole più forti, ma non riesce. «Ti legano braccia e gambe – spiega incrociando mani e piedi – e ti picchiano ogni giorno, perché vogliono soldi».
Mary, 27 anni, nigeriana, è in Israele da poco più di un anno. Nella serata tiepida di Tel Aviv, siede su un muretto vicino al rifugio dell’organizzazione non governativa African Refugee Development Centre (Ardc), diventata la sua casa, dopo i cinque mesi trascorsi nel centro di detenzione israeliano di Saharonim.
Il rifugio si trova nel quartiere di Shapira che, assieme al vicino Neve Sha’anan, è la casa di migliaia di africani. Mary saluta le donne che passano in strada. Dice: «Ci conosciamo tutti qui. Abbiamo avuto esperienze simili. Ho anche ritrovato persone che erano passate per le mani di Muhammad. Erano sorpresi di vedere me e mio figlio vivi».
Dice che suo figlio ancora pensa che Muhammad possa tornare a picchiarlo in qualsiasi momento: «Non c’è stata notte in cui io e Valentine non abbiamo pianto, o giorno in cui non siamo stati picchiati per quei soldi. Appendevano mio figlio per il collo, perché mi decidessi a chiamare qualcuno, ma non avevo nessuno da poter chiamare».
Quindici mesi di torture, di botte e stupri non bastarono a convincere Muhammad che Mary era sola al mondo. «Fu il padre di lui a liberarmi. Pagò il mio riscatto, dando un cammello al figlio». Continua: «Ho visto gente venire uccisa perché non poteva pagare. Spesso mi domando: ma davvero è successo tutto questo e siamo ancora vivi? Non c’è che ringraziare Dio».
Nella tragedia, Mary ha avuto fortuna. In un servizio mandato in onda in novembre, l’americana Cnn ha documentato il traffico illecito di organi collegato al Sinai. Migranti che non riescono a pagare vengono operati in cliniche mobili e poi abbandonati a morire nel deserto, mentre gli organi espiantati vanno a salvare qualche ricco paziente negli ospedali del Cairo.
Nella clinica gestita da Physicians for Human Rights-Israel (Phr-I), a Jaffa, suor Aziza Kidané, missionaria comboniana, sente spesso storie di violenze simili a quelle subite da Mary. In un anno e mezzo, alla Phr-I sono state raccolte 819 testimonianze di clandestini entrati dal Sinai. Fame, sete, torture e morte caratterizzano la traversata. Tra gennaio e novembre 2011 le stime del ministero degli interni israeliano parlano di 13.683 “infiltrati” (così sono definiti coloro che entrano illegalmente in Israele).
Venduti e rivenduti
Suor Aziza spiega che, fino a un anno e mezzo fa, non si sapeva niente del Sinai. In clinica arrivavano feriti, depressi, donne che chiedevano di abortire, ma non si sapeva cosa avessero passato e, soprattutto, non si capiva la sistematicità delle violenze subite. Sono state le interviste ai nuovi arrivati nella clinica di Phr-I a portare alla luce l’incubo che è diventato il deserto egiziano.
«Abbiamo scoperto il traffico di esseri umani, le torture e la grande sofferenza. È stato un forte shock per tutti. Siamo stati noi i primi a lanciare l’allarme. Poi, anche il Papa ne ha parlato».
In una stanzetta anonima, suor Aziza e una volontaria accolgono una ventenne eritrea che arriva con il fidanzato. Lui le aveva mandato i 3mila dollari necessari per la traversata, nella speranza di potersi riunire in Israele. Il viaggio cominciò con una guida, che la fece uscire illegalmente dall’Eritrea; poi, una volta in Sudan, la violentò. La ragazza è finalmente arrivata in Israele, ma si ritrova in una clinica per immigrati e chiede di abortire. Suor Aziza, con una punta di speranza: «Il fidanzato ha accettato la situazione e le rimane accanto».
Mentre il traffico di esseri umani rimane impunito e produce guadagni da capogiro, la violenza cresce. Ancora suor Aziza: «Chi arriva in clinica è a pezzi psicologicamente e fisicamente. Arrivano tutti con un sogno. Israele è il paese di Gesù e della Bibbia. Una volta qui, però, si ritrovano a dormire nel Levinsky Park». È lì, nel degradato quartiere di Neve Sha’anan, che gli immigrati gravitano. Il parco è vicino alla stazione degli autobus di Tel Aviv, dove gli immigrati vengono spediti dai centri di detenzione con un biglietto di sola andata. Se non portano le ferite di un viaggio andato male, al mattino si radunano sul ciglio della strada, sperando di essere scelti per una giornata di lavoro mal pagato.
Aggiunge la comboniana: «Alcuni sono stati venduti e rivenduti per 35- 40mila dollari. Ora si trovano sulle spalle il peso di dover ripagare il debito alle loro famiglie. Ma non c’è lavoro e non c’è integrazione. Perciò soffrono molto. Si trovano sperduti».
Shahar Shoham, portavoce di Phr-I, è convinta che si possa fare di più a livello internazionale. Assieme ad altre ong, tra le quali le italiane Agenzia Habeisha, di padre Mussie Zerai, ed EveryOne Group, Phr-I ha denunciato la situazione nel Sinai, ha fatto i nomi dei criminali coinvolti e specificato i luoghi in cui i clandestini sono tenuti in ostaggio, torturati o usati come schiavi dai trafficanti. Dice Shoham: «Sappiamo dove sono i campi di tortura e abbiamo passato le informazioni alle autorità competenti. Ci vuole un’azione della comunità internazionale per fermare questo traffico di esseri umani. Bisogna arrestare i colpevoli, smantellare i campi e curare le vittime. E si può fare ora».
Al consolato egiziano di Tel Aviv, un ufficiale la pensa diversamente e punta il dito contro gli stessi irregolari, i quali, pur sapendo di rischiare la vita, dice, «continuano a fidarsi di noti criminali e a pagare loro alte cifre per intraprendere un viaggio illegale». Che il Sinai sia fuori controllo, afferma l’ufficiale, è un’accusa insensata. Gli accordi di pace del 1979 con Israele prevedono che rimanga demilitarizzato. Ma dopo i recenti attacchi al gasdotto di Al-Arish – che raggiunge anche lo stato ebraico – e a Eilat, lo scorso agosto, Israele ha dato il nulla osta a un aumento delle truppe egiziane. I trafficanti beduini, però, sono armati e non si sottomettono al controllo di uno stato che a malapena li considera.
Nel dicembre 2010, l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Acnur) fece pressione sul governo egiziano perché liberasse circa 250 migranti e profughi detenuti nel Sinai. L’Egitto assicurò che si stava muovendo per localizzare e liberare gli ostaggi. A oggi, però, nulla è cambiato. Le ong parlano di altre centinaia di africani detenuti in container sepolti nel deserto del Sinai. La situazione, secondo Nic Shlagman, portavoce dell’Ardc, è peggiorata: «Si è innescato un tale giro di affari che si è arrivati al punto in cui persone che non vogliono nemmeno emigrare vengono rapite dai campi profughi, portate nel Sinai e mandate in Israele dietro pagamento del riscatto».
Nemmeno da Israele arrivano proposte per sconfiggere una rete criminale con tentacoli che giungono fino a Tel Aviv. L’ufficio stampa del ministero degli interni fa sapere che le informazioni ricevute dalle ong sono state passate alla polizia. Ma niente si è mosso.
C’è solo da augurarsi che Egitto, Israele e la comunità internazionale non vogliano ignorare questa situazione.
240 km di muro
Grazie al dubbio titolo di “unica democrazia” del Medio Oriente, Israele rimane, comunque, l’unico paese della regione in grado di garantire protezione a chi, purché non arabo, cerchi un futuro sicuro. Come ogni paese di frontiera nelle rotte globali della migrazione, fatica a far fronte alla situazione. All’inizio del 2012, Israele ha approvato una legge che inasprisce le misure contro i migranti irregolari. Per evitare infiltrazioni – come si legge nel testo – la nuova normativa consente la detenzione fino a tre anni, senza processo, di chi attraversa il confine privo permesso, senza distinzione neanche per i minori. Non solo: chiunque aiuti i migranti, anche se operatore umanitario, può essere condannato fino a 15 anni di carcere. «Lo scopo della legge è impedire che i migranti, rifugiati compresi, entrino in Israele, ignorando la Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato, ratificata anche da Tel Aviv nel 1952», ha dichiarato l’Associazione per i diritti civili (Acri). Il governo, in dicembre, ha varato un piano da 167 milioni di dollari per arginare il flusso dei migranti, che prevede, oltre all’estensione della durata della detenzione, anche la realizzazione di un muro lungo i 240 km che dividono l’Egitto da Israele, multe per i datori di lavoro che assumono in nero gli irregolari e l’elaborazione di una strategia per il rimpatrio dei migranti.
Erano stati proprio gli accordi Libia- Italia del 2009, rinnovati di recente dal governo Monti, a innalzare, a suo tempo, un invisibile muro sulle coste della Libia e a contribuire all’impennata migratoria verso Israele. Tra il 2010 e il 2011, infatti, dal Sinai sono entrati circa 28mila illegali, più del doppio di quanti ne erano entrati tra il 2005 e il 2009. Si parla di cristiani e musulmani, che qui minacciano non solo l’economia, ma anche il carattere ebraico dello stato.
Seduto in un bar eritreo vicino al Levinsky Park, Hailé Mengisteab, trentaquattrenne presidente del Comitato della comunità eritrea in Israele, è convinto che non ci sia muro che possa bloccare la determinazione di chi vuole una vita migliore. Lui stesso, dopo vari tentativi di raggiungere l’Italia dalla Libia, non ha rinunciato, ma ha solo cambiato destinazione.
Mentre il nord del mondo s’illude che, chiudendosi a riccio, possa risolvere un problema globale e mentre Netanyahu si prepara a visitare l’Africa per discutere il rimpatrio di sudanesi ed eritrei (vedi box), gli unici a non perdere di vista il contesto e l’origine della loro situazione sono gli immigrati stessi.
Gli eritrei in Israele sono il 61% dei profughi. Raggruppati in varie organizzazioni, si adoperano sia a sensibilizzare la società israeliana alle difficoltà degli immigrati, sia a ottenere sostegno dalla comunità internazionale per far cadere la dittatura di Isaias Afwerki, che da 18 anni tiene le loro vite sotto completo controllo. Coscrizione obbligatoria che vede giovani trascorrere decenni nell’esercito, mancanza di libertà di stampa, incarcerazioni arbitrarie e persecuzione religiosa sono alcuni dei problemi a cui i profughi eritrei cercano di sfuggire. Afferma Mengisteab: «La classe politica che ci governa ci definisce traditori. I traditori sono loro: hanno perso qualsiasi legittimità». Assieme ad altre organizzazioni della diaspora eritrea nel mondo, il comitato lavora sodo per coronare le ambizioni democratiche degli eritrei.
Il legame con la propria terra rimane forte. Mengisteab sa di dar voce anche alle speranze dei suoi connazionali, quando dice di voler tornare al più presto in un’Eritrea libera: «Mi mancano la mia lingua, le mie montagne e le mie tradizioni». Sono ricordi e un’identità che non si possono ritrovare nella musica di sottofondo e nelle decorazioni colorate di un bar eritreo a Tel Aviv.
Box: Una città in Sud Sudan per gli africani d’Israel
Martedì 20 dicembre il presidente sud-sudanese Salva Kiir si è recato in visita dal presidente israeliano Shimon Peres, incontrando anche il primo ministro Benjamin Netanyahu. Un incontro che conferma gli ottimi rapporti che intercorrono tra il nuovo stato africano e Israele, tra i primi paesi a riconoscere l’indipendenza delle regioni meridionali del Sudan da Khartoum, in seguito al referendum del gennaio 2011, che ha dato il via libera alla secessione. È forse proprio in segno di riconoscenza per il tempestivo riconoscimento, che il presidente Kiir ha dedicato a Israele la prima visita ufficiale da quando è in carica. Del resto, l’Africa Orientale, a causa della sua continua conflittualità, è considerata da Gerusalemme una regione di estrema importanza per il commercio delle proprie armi. Anche se la visione di Israele va ben al di là dei soli aspetti economico-commerciali. Netanyahu, infatti, ha identificato in alcuni paesi della regione possibili alleati per contenere l’espansionismo arabo-islamico in Africa. In particolare Juba, Nairobi e Kampala sono riconosciute come le capitali strategiche con cui avere rapporti privilegiati. Non a caso, la visita di Kiir è stata preceduta di alcune settimane da quella del primo ministro kenyano Raila Odinga, al quale Netanyahu avrebbe promesso un impegno militare maggiore nella lotta contro i ribelli islamisti somali.
Gli incontri dei vertici istituzionali israeliani con Kiir includevano anche il rafforzamento della collaborazione nei campi dello sviluppo tecnologico, dell’industria, dello sviluppo idrico e delle nuove rotte del petrolio sudanese. Il Kenya ha in cantiere la costruzione di uno scalo petrolifero a Lamu, che dovrebbe essere utilizzato anche da Juba.
Nei colloqui si è parlato anche degli 8.000 immigrati che, negli ultimi anni, dal Sud Sudan sono entrati illegalmente in Israele. E che fanno parte di quella massa di immigrati africani – si parla di 40mila persone negli ultimi 6 anni – di cui Gerusalemme vorrebbe disfarsi. Per questo, come ha raccontato il quotidiano economico israeliano Calcalist, uno dei progetti discussi tra la delegazione israeliana e quella sud-sudanese è stata la costruzione in Sud Sudan di una nuova città dove facilitare il reinserimento sociale per decine di migliaia di migranti africani che vivono attualmente in terra israeliana. Secondo il giornale, Gerusalemme è pronta a partecipare alla costruzione di un campo di accoglienza immenso, «grande quasi come una città», dove raccogliere una parte dei 50mila migranti entrati illegalmente nello stato ebraico: 30mila di questi sono eritrei e 15 mila sudanesi. I dirigenti israeliani sarebbero anche disposti a pagare le loro spese di trasporto e una quota per ogni migrante, al quale verrebbero offerti corsi di specializzazione in vari settori (Giba).
Da Nigrizia di febbraio 2012: storia di migranti mercificati
Silvia Boarini da Tel Aviv
Molti sono eritrei, ma arrivano anche da altri paesi dell’Africa subsahariana. Cercano di raggiungere Israele, lasciandosi alle spalle oppressione e miseria. Spesso diventano prede di trafficanti di esseri umani e di organi. E la comunità internazionale?
Mary è stupita di sentire ancora il respiro del figlio tra le sue braccia. Era sicura fosse morto, ucciso da una delle pallottole sparate dalle forze egiziane contro i migranti che tentano di raggiungere Israele. Ricorda che gridava: «Abbiamo bisogno di aiuto», e non credeva alle parole del soldato israeliano di fronte a lei che diceva: «Ora sei al sicuro». Era davvero al di là del filo spinato. L’incubo del Sinai finalmente alle sue spalle.
Nei 15 mesi che aveva trascorso nelle mani di Muhammad, uno dei contrabbandieri beduini che controllano il traffico di migranti nel Sinai, aveva subito pestaggi, era stata stuprata e aveva visto suo figlio, di 2 anni, picchiato e tenuto semisepolto nella sabbia. «È dura nel Sinai», dice con lo sguardo nel vuoto. Cerca parole più forti, ma non riesce. «Ti legano braccia e gambe – spiega incrociando mani e piedi – e ti picchiano ogni giorno, perché vogliono soldi».
Mary, 27 anni, nigeriana, è in Israele da poco più di un anno. Nella serata tiepida di Tel Aviv, siede su un muretto vicino al rifugio dell’organizzazione non governativa African Refugee Development Centre (Ardc), diventata la sua casa, dopo i cinque mesi trascorsi nel centro di detenzione israeliano di Saharonim.
Il rifugio si trova nel quartiere di Shapira che, assieme al vicino Neve Sha’anan, è la casa di migliaia di africani. Mary saluta le donne che passano in strada. Dice: «Ci conosciamo tutti qui. Abbiamo avuto esperienze simili. Ho anche ritrovato persone che erano passate per le mani di Muhammad. Erano sorpresi di vedere me e mio figlio vivi».
Dice che suo figlio ancora pensa che Muhammad possa tornare a picchiarlo in qualsiasi momento: «Non c’è stata notte in cui io e Valentine non abbiamo pianto, o giorno in cui non siamo stati picchiati per quei soldi. Appendevano mio figlio per il collo, perché mi decidessi a chiamare qualcuno, ma non avevo nessuno da poter chiamare».
Quindici mesi di torture, di botte e stupri non bastarono a convincere Muhammad che Mary era sola al mondo. «Fu il padre di lui a liberarmi. Pagò il mio riscatto, dando un cammello al figlio». Continua: «Ho visto gente venire uccisa perché non poteva pagare. Spesso mi domando: ma davvero è successo tutto questo e siamo ancora vivi? Non c’è che ringraziare Dio».
Nella tragedia, Mary ha avuto fortuna. In un servizio mandato in onda in novembre, l’americana Cnn ha documentato il traffico illecito di organi collegato al Sinai. Migranti che non riescono a pagare vengono operati in cliniche mobili e poi abbandonati a morire nel deserto, mentre gli organi espiantati vanno a salvare qualche ricco paziente negli ospedali del Cairo.
Nella clinica gestita da Physicians for Human Rights-Israel (Phr-I), a Jaffa, suor Aziza Kidané, missionaria comboniana, sente spesso storie di violenze simili a quelle subite da Mary. In un anno e mezzo, alla Phr-I sono state raccolte 819 testimonianze di clandestini entrati dal Sinai. Fame, sete, torture e morte caratterizzano la traversata. Tra gennaio e novembre 2011 le stime del ministero degli interni israeliano parlano di 13.683 “infiltrati” (così sono definiti coloro che entrano illegalmente in Israele).
Venduti e rivenduti
Suor Aziza spiega che, fino a un anno e mezzo fa, non si sapeva niente del Sinai. In clinica arrivavano feriti, depressi, donne che chiedevano di abortire, ma non si sapeva cosa avessero passato e, soprattutto, non si capiva la sistematicità delle violenze subite. Sono state le interviste ai nuovi arrivati nella clinica di Phr-I a portare alla luce l’incubo che è diventato il deserto egiziano.
«Abbiamo scoperto il traffico di esseri umani, le torture e la grande sofferenza. È stato un forte shock per tutti. Siamo stati noi i primi a lanciare l’allarme. Poi, anche il Papa ne ha parlato».
In una stanzetta anonima, suor Aziza e una volontaria accolgono una ventenne eritrea che arriva con il fidanzato. Lui le aveva mandato i 3mila dollari necessari per la traversata, nella speranza di potersi riunire in Israele. Il viaggio cominciò con una guida, che la fece uscire illegalmente dall’Eritrea; poi, una volta in Sudan, la violentò. La ragazza è finalmente arrivata in Israele, ma si ritrova in una clinica per immigrati e chiede di abortire. Suor Aziza, con una punta di speranza: «Il fidanzato ha accettato la situazione e le rimane accanto».
Mentre il traffico di esseri umani rimane impunito e produce guadagni da capogiro, la violenza cresce. Ancora suor Aziza: «Chi arriva in clinica è a pezzi psicologicamente e fisicamente. Arrivano tutti con un sogno. Israele è il paese di Gesù e della Bibbia. Una volta qui, però, si ritrovano a dormire nel Levinsky Park». È lì, nel degradato quartiere di Neve Sha’anan, che gli immigrati gravitano. Il parco è vicino alla stazione degli autobus di Tel Aviv, dove gli immigrati vengono spediti dai centri di detenzione con un biglietto di sola andata. Se non portano le ferite di un viaggio andato male, al mattino si radunano sul ciglio della strada, sperando di essere scelti per una giornata di lavoro mal pagato.
Aggiunge la comboniana: «Alcuni sono stati venduti e rivenduti per 35- 40mila dollari. Ora si trovano sulle spalle il peso di dover ripagare il debito alle loro famiglie. Ma non c’è lavoro e non c’è integrazione. Perciò soffrono molto. Si trovano sperduti».
Shahar Shoham, portavoce di Phr-I, è convinta che si possa fare di più a livello internazionale. Assieme ad altre ong, tra le quali le italiane Agenzia Habeisha, di padre Mussie Zerai, ed EveryOne Group, Phr-I ha denunciato la situazione nel Sinai, ha fatto i nomi dei criminali coinvolti e specificato i luoghi in cui i clandestini sono tenuti in ostaggio, torturati o usati come schiavi dai trafficanti. Dice Shoham: «Sappiamo dove sono i campi di tortura e abbiamo passato le informazioni alle autorità competenti. Ci vuole un’azione della comunità internazionale per fermare questo traffico di esseri umani. Bisogna arrestare i colpevoli, smantellare i campi e curare le vittime. E si può fare ora».
Al consolato egiziano di Tel Aviv, un ufficiale la pensa diversamente e punta il dito contro gli stessi irregolari, i quali, pur sapendo di rischiare la vita, dice, «continuano a fidarsi di noti criminali e a pagare loro alte cifre per intraprendere un viaggio illegale». Che il Sinai sia fuori controllo, afferma l’ufficiale, è un’accusa insensata. Gli accordi di pace del 1979 con Israele prevedono che rimanga demilitarizzato. Ma dopo i recenti attacchi al gasdotto di Al-Arish – che raggiunge anche lo stato ebraico – e a Eilat, lo scorso agosto, Israele ha dato il nulla osta a un aumento delle truppe egiziane. I trafficanti beduini, però, sono armati e non si sottomettono al controllo di uno stato che a malapena li considera.
Nel dicembre 2010, l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Acnur) fece pressione sul governo egiziano perché liberasse circa 250 migranti e profughi detenuti nel Sinai. L’Egitto assicurò che si stava muovendo per localizzare e liberare gli ostaggi. A oggi, però, nulla è cambiato. Le ong parlano di altre centinaia di africani detenuti in container sepolti nel deserto del Sinai. La situazione, secondo Nic Shlagman, portavoce dell’Ardc, è peggiorata: «Si è innescato un tale giro di affari che si è arrivati al punto in cui persone che non vogliono nemmeno emigrare vengono rapite dai campi profughi, portate nel Sinai e mandate in Israele dietro pagamento del riscatto».
Nemmeno da Israele arrivano proposte per sconfiggere una rete criminale con tentacoli che giungono fino a Tel Aviv. L’ufficio stampa del ministero degli interni fa sapere che le informazioni ricevute dalle ong sono state passate alla polizia. Ma niente si è mosso.
C’è solo da augurarsi che Egitto, Israele e la comunità internazionale non vogliano ignorare questa situazione.
240 km di muro
Grazie al dubbio titolo di “unica democrazia” del Medio Oriente, Israele rimane, comunque, l’unico paese della regione in grado di garantire protezione a chi, purché non arabo, cerchi un futuro sicuro. Come ogni paese di frontiera nelle rotte globali della migrazione, fatica a far fronte alla situazione. All’inizio del 2012, Israele ha approvato una legge che inasprisce le misure contro i migranti irregolari. Per evitare infiltrazioni – come si legge nel testo – la nuova normativa consente la detenzione fino a tre anni, senza processo, di chi attraversa il confine privo permesso, senza distinzione neanche per i minori. Non solo: chiunque aiuti i migranti, anche se operatore umanitario, può essere condannato fino a 15 anni di carcere. «Lo scopo della legge è impedire che i migranti, rifugiati compresi, entrino in Israele, ignorando la Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato, ratificata anche da Tel Aviv nel 1952», ha dichiarato l’Associazione per i diritti civili (Acri). Il governo, in dicembre, ha varato un piano da 167 milioni di dollari per arginare il flusso dei migranti, che prevede, oltre all’estensione della durata della detenzione, anche la realizzazione di un muro lungo i 240 km che dividono l’Egitto da Israele, multe per i datori di lavoro che assumono in nero gli irregolari e l’elaborazione di una strategia per il rimpatrio dei migranti.
Erano stati proprio gli accordi Libia- Italia del 2009, rinnovati di recente dal governo Monti, a innalzare, a suo tempo, un invisibile muro sulle coste della Libia e a contribuire all’impennata migratoria verso Israele. Tra il 2010 e il 2011, infatti, dal Sinai sono entrati circa 28mila illegali, più del doppio di quanti ne erano entrati tra il 2005 e il 2009. Si parla di cristiani e musulmani, che qui minacciano non solo l’economia, ma anche il carattere ebraico dello stato.
Seduto in un bar eritreo vicino al Levinsky Park, Hailé Mengisteab, trentaquattrenne presidente del Comitato della comunità eritrea in Israele, è convinto che non ci sia muro che possa bloccare la determinazione di chi vuole una vita migliore. Lui stesso, dopo vari tentativi di raggiungere l’Italia dalla Libia, non ha rinunciato, ma ha solo cambiato destinazione.
Mentre il nord del mondo s’illude che, chiudendosi a riccio, possa risolvere un problema globale e mentre Netanyahu si prepara a visitare l’Africa per discutere il rimpatrio di sudanesi ed eritrei (vedi box), gli unici a non perdere di vista il contesto e l’origine della loro situazione sono gli immigrati stessi.
Gli eritrei in Israele sono il 61% dei profughi. Raggruppati in varie organizzazioni, si adoperano sia a sensibilizzare la società israeliana alle difficoltà degli immigrati, sia a ottenere sostegno dalla comunità internazionale per far cadere la dittatura di Isaias Afwerki, che da 18 anni tiene le loro vite sotto completo controllo. Coscrizione obbligatoria che vede giovani trascorrere decenni nell’esercito, mancanza di libertà di stampa, incarcerazioni arbitrarie e persecuzione religiosa sono alcuni dei problemi a cui i profughi eritrei cercano di sfuggire. Afferma Mengisteab: «La classe politica che ci governa ci definisce traditori. I traditori sono loro: hanno perso qualsiasi legittimità». Assieme ad altre organizzazioni della diaspora eritrea nel mondo, il comitato lavora sodo per coronare le ambizioni democratiche degli eritrei.
Il legame con la propria terra rimane forte. Mengisteab sa di dar voce anche alle speranze dei suoi connazionali, quando dice di voler tornare al più presto in un’Eritrea libera: «Mi mancano la mia lingua, le mie montagne e le mie tradizioni». Sono ricordi e un’identità che non si possono ritrovare nella musica di sottofondo e nelle decorazioni colorate di un bar eritreo a Tel Aviv.
Box: Una città in Sud Sudan per gli africani d’Israel
Martedì 20 dicembre il presidente sud-sudanese Salva Kiir si è recato in visita dal presidente israeliano Shimon Peres, incontrando anche il primo ministro Benjamin Netanyahu. Un incontro che conferma gli ottimi rapporti che intercorrono tra il nuovo stato africano e Israele, tra i primi paesi a riconoscere l’indipendenza delle regioni meridionali del Sudan da Khartoum, in seguito al referendum del gennaio 2011, che ha dato il via libera alla secessione. È forse proprio in segno di riconoscenza per il tempestivo riconoscimento, che il presidente Kiir ha dedicato a Israele la prima visita ufficiale da quando è in carica. Del resto, l’Africa Orientale, a causa della sua continua conflittualità, è considerata da Gerusalemme una regione di estrema importanza per il commercio delle proprie armi. Anche se la visione di Israele va ben al di là dei soli aspetti economico-commerciali. Netanyahu, infatti, ha identificato in alcuni paesi della regione possibili alleati per contenere l’espansionismo arabo-islamico in Africa. In particolare Juba, Nairobi e Kampala sono riconosciute come le capitali strategiche con cui avere rapporti privilegiati. Non a caso, la visita di Kiir è stata preceduta di alcune settimane da quella del primo ministro kenyano Raila Odinga, al quale Netanyahu avrebbe promesso un impegno militare maggiore nella lotta contro i ribelli islamisti somali.
Gli incontri dei vertici istituzionali israeliani con Kiir includevano anche il rafforzamento della collaborazione nei campi dello sviluppo tecnologico, dell’industria, dello sviluppo idrico e delle nuove rotte del petrolio sudanese. Il Kenya ha in cantiere la costruzione di uno scalo petrolifero a Lamu, che dovrebbe essere utilizzato anche da Juba.
Nei colloqui si è parlato anche degli 8.000 immigrati che, negli ultimi anni, dal Sud Sudan sono entrati illegalmente in Israele. E che fanno parte di quella massa di immigrati africani – si parla di 40mila persone negli ultimi 6 anni – di cui Gerusalemme vorrebbe disfarsi. Per questo, come ha raccontato il quotidiano economico israeliano Calcalist, uno dei progetti discussi tra la delegazione israeliana e quella sud-sudanese è stata la costruzione in Sud Sudan di una nuova città dove facilitare il reinserimento sociale per decine di migliaia di migranti africani che vivono attualmente in terra israeliana. Secondo il giornale, Gerusalemme è pronta a partecipare alla costruzione di un campo di accoglienza immenso, «grande quasi come una città», dove raccogliere una parte dei 50mila migranti entrati illegalmente nello stato ebraico: 30mila di questi sono eritrei e 15 mila sudanesi. I dirigenti israeliani sarebbero anche disposti a pagare le loro spese di trasporto e una quota per ogni migrante, al quale verrebbero offerti corsi di specializzazione in vari settori (Giba).
sabato 11 febbraio 2012
paura
questo articolo è come se l'avessi scritto io dopo una notte insonne ....
è tanto che non scrivo , ma quando si avvicina febbraio e l'anniversario di Joni ( il 23 saremo al cimitero, lui è morto il 26 febbraio e sono 14 anni) devo fare i conti, tutti gli anni, con i miei incubi . e allora è meglio che stia zitta-
ma Gideon Levy l'ha scritto per me: il governo degli eroi che fa paura agli israeliani.
eccolo
Le minacce di Teheran vanno prese sul serio. Ma attaccare l’Iran è una follia
di Gideon Levy
Tra le persone che leggono queste righe c’è chi non supererà l’inverno. Probabilmente alcuni di loro non moriranno di morte naturale.
Se diamo credito alle minacce di questi giorni, Israele attaccherà gli impianti del programma nucleare iraniano entro l’inizio della primavera. Se le parole si trasformeranno in fatti, centinaia – se non migliaia – di israeliani moriranno sotto i colpi della controffensiva missilistica di Teheran
Qualcuno sostiene che Israele vuole solo fare pressione sull’Iran. Ma le minacce di questo tipo tendono a sfuggire al controllo di chi le ha lanciate, e alla fine possono scatenare una guerra nonostante l’obiettivo iniziale fosse un altro. Teheran potrebbe scegliere di giocare d’anticipo e sferrare un disperato attacco a Israele. C’è anche chi sostiene che l’offensiva israeliana sarà un successo: i jet decollano, sganciano le bombe e distruggono gli impianti nucleari iraniani,
senza lasciare all’Iran l’opportunità di vendicarsi.
Ma le cose potrebbero anche andare diversamente. In ogni caso dobbiamo ammetterlo: siamo in pericolo, Israele (forse) si prepara ad attaccare l’Iran. E allora
sì che dovremmo avere paura.
Ma l’impressione è che la maggioranza degli israeliani non ha paura. Nessuno sta abbandonando il paese in preda al panico, nessuno sta accumulando scorte. La decisione viene lasciata a un piccolo gruppo di persone convinte che l’opinione pubblica, come sempre, si idi ciecamente di loro. Il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Ehud Barak decideranno cosa bisogna fare, e noi israeliani li sosterremo silenziosamente. Non facciamo affidamento su di loro se si tratta di domare un incendio come quello che ha distrutto la foresta di Carmel o amministrare i loro uffici. Ma un attacco all’Iran? La vita e la morte (soprattutto la morte) su larga scala? In quel caso, ci ridiamo. È sempre andata così nelle guerre di Israele. Prima che venissero combattute, il popolo sosteneva
i suoi leader. Dopo invece, quando il sangue era stato versato in abbondanza e le conseguenze erano davanti agli occhi di tutti, ce la siamo presa con loro.
Scelte discutibili.
Tutte le guerre combattute da Israele dal 1973 sono cominciate a causa di scelte discutibili. Nessuna guerra era inevitabile e nessuna guerra ha portato benefici che non si potevano ottenere con altri mezzi. Sono state tutte guerre disastrose, anche se a soffrirne le conseguenze peggiori sono stati i nostri avversari. La più folle di tutte, la guerra in Libano nel 2006, è stata anche la più catastrofica. Vale la pena di ricordarlo quando parliamo di un attacco all’Iran, che evidentemente sarebbe ancora più folle.
Sia nella guerra in Libano sia in quella nella Striscia di Gaza, Israele ha perso più di quanto abbia guadagnato. Ma se davvero scoppierà, la guerra con l’Iran ha
le potenzialità per diventare la più devastante di tutte. Possiamo anche credere alle rassicurazioni di Barak, ma le previsioni parlano comunque di centinaia di vittime tra i civili.
Il programma nucleare iraniano è pericoloso, ma lo sono anche quelli del Pakistan e della Corea del Nord. Eppure il mondo ha imparato a conviverci. Un attacco israeliano potrebbe rendere l’Iran ancora più pericoloso. Sulle conseguenze dello scontro è stato detto di tutto. Nella migliore delle ipotesi il risultato sarebbe un rallentamento nel programma di Teheran per lo sviluppo di armi nucleari, ma potrebbe anche succedere il contrario, e i piani del governo iraniano potrebbero subire un’accelerazione. Inoltre le relazioni tra Israele e Stati Uniti peggiorerebbero inevitabilmente e le città israeliane potrebbero essere investite da una
pioggia di missili. La verità è che Israele deve fare di tutto per impedire a Teheran di dotarsi di un arsenale nucleare, e deve evitare di scatenare un’altra guerra inutile.
La decisione, però, è nelle mani sbagliate. Non possiamo più dipendere dagli Stati Uniti per scongiurare la minaccia di una guerra, e non possiamo più dipendere dal governo israeliano per la sicurezza del nostro paese. Un governo che ignora l’opportunità di raggiungere un accordo con i palestinesi è un
governo pericoloso.
È arrivato il tempo della paura. Non ci resta che ammetterlo e farlo capire anche agli altri. È passato molto tempo dall’ultima volta in cui Israele è stato governato da leader codardi, il genere di persone che per timore agisce in modo saggio e con prudenza. Per troppo tempo siamo stati governati da eroi, quelli che non ci pensano un attimo prima di trascinare il paese in un attacco militare pericoloso e insensato. E allora forse è arrivato il momento di fargli capire come stanno le cose: abbiamo p-a-u-r-a.
è tanto che non scrivo , ma quando si avvicina febbraio e l'anniversario di Joni ( il 23 saremo al cimitero, lui è morto il 26 febbraio e sono 14 anni) devo fare i conti, tutti gli anni, con i miei incubi . e allora è meglio che stia zitta-
ma Gideon Levy l'ha scritto per me: il governo degli eroi che fa paura agli israeliani.
eccolo
Le minacce di Teheran vanno prese sul serio. Ma attaccare l’Iran è una follia
di Gideon Levy
Tra le persone che leggono queste righe c’è chi non supererà l’inverno. Probabilmente alcuni di loro non moriranno di morte naturale.
Se diamo credito alle minacce di questi giorni, Israele attaccherà gli impianti del programma nucleare iraniano entro l’inizio della primavera. Se le parole si trasformeranno in fatti, centinaia – se non migliaia – di israeliani moriranno sotto i colpi della controffensiva missilistica di Teheran
Qualcuno sostiene che Israele vuole solo fare pressione sull’Iran. Ma le minacce di questo tipo tendono a sfuggire al controllo di chi le ha lanciate, e alla fine possono scatenare una guerra nonostante l’obiettivo iniziale fosse un altro. Teheran potrebbe scegliere di giocare d’anticipo e sferrare un disperato attacco a Israele. C’è anche chi sostiene che l’offensiva israeliana sarà un successo: i jet decollano, sganciano le bombe e distruggono gli impianti nucleari iraniani,
senza lasciare all’Iran l’opportunità di vendicarsi.
Ma le cose potrebbero anche andare diversamente. In ogni caso dobbiamo ammetterlo: siamo in pericolo, Israele (forse) si prepara ad attaccare l’Iran. E allora
sì che dovremmo avere paura.
Ma l’impressione è che la maggioranza degli israeliani non ha paura. Nessuno sta abbandonando il paese in preda al panico, nessuno sta accumulando scorte. La decisione viene lasciata a un piccolo gruppo di persone convinte che l’opinione pubblica, come sempre, si idi ciecamente di loro. Il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Ehud Barak decideranno cosa bisogna fare, e noi israeliani li sosterremo silenziosamente. Non facciamo affidamento su di loro se si tratta di domare un incendio come quello che ha distrutto la foresta di Carmel o amministrare i loro uffici. Ma un attacco all’Iran? La vita e la morte (soprattutto la morte) su larga scala? In quel caso, ci ridiamo. È sempre andata così nelle guerre di Israele. Prima che venissero combattute, il popolo sosteneva
i suoi leader. Dopo invece, quando il sangue era stato versato in abbondanza e le conseguenze erano davanti agli occhi di tutti, ce la siamo presa con loro.
Scelte discutibili.
Tutte le guerre combattute da Israele dal 1973 sono cominciate a causa di scelte discutibili. Nessuna guerra era inevitabile e nessuna guerra ha portato benefici che non si potevano ottenere con altri mezzi. Sono state tutte guerre disastrose, anche se a soffrirne le conseguenze peggiori sono stati i nostri avversari. La più folle di tutte, la guerra in Libano nel 2006, è stata anche la più catastrofica. Vale la pena di ricordarlo quando parliamo di un attacco all’Iran, che evidentemente sarebbe ancora più folle.
Sia nella guerra in Libano sia in quella nella Striscia di Gaza, Israele ha perso più di quanto abbia guadagnato. Ma se davvero scoppierà, la guerra con l’Iran ha
le potenzialità per diventare la più devastante di tutte. Possiamo anche credere alle rassicurazioni di Barak, ma le previsioni parlano comunque di centinaia di vittime tra i civili.
Il programma nucleare iraniano è pericoloso, ma lo sono anche quelli del Pakistan e della Corea del Nord. Eppure il mondo ha imparato a conviverci. Un attacco israeliano potrebbe rendere l’Iran ancora più pericoloso. Sulle conseguenze dello scontro è stato detto di tutto. Nella migliore delle ipotesi il risultato sarebbe un rallentamento nel programma di Teheran per lo sviluppo di armi nucleari, ma potrebbe anche succedere il contrario, e i piani del governo iraniano potrebbero subire un’accelerazione. Inoltre le relazioni tra Israele e Stati Uniti peggiorerebbero inevitabilmente e le città israeliane potrebbero essere investite da una
pioggia di missili. La verità è che Israele deve fare di tutto per impedire a Teheran di dotarsi di un arsenale nucleare, e deve evitare di scatenare un’altra guerra inutile.
La decisione, però, è nelle mani sbagliate. Non possiamo più dipendere dagli Stati Uniti per scongiurare la minaccia di una guerra, e non possiamo più dipendere dal governo israeliano per la sicurezza del nostro paese. Un governo che ignora l’opportunità di raggiungere un accordo con i palestinesi è un
governo pericoloso.
È arrivato il tempo della paura. Non ci resta che ammetterlo e farlo capire anche agli altri. È passato molto tempo dall’ultima volta in cui Israele è stato governato da leader codardi, il genere di persone che per timore agisce in modo saggio e con prudenza. Per troppo tempo siamo stati governati da eroi, quelli che non ci pensano un attimo prima di trascinare il paese in un attacco militare pericoloso e insensato. E allora forse è arrivato il momento di fargli capire come stanno le cose: abbiamo p-a-u-r-a.
martedì 3 gennaio 2012
intervista ad Adnkronos
Tel Aviv, 3 gen. (Adnkronos) - Gli ultraortodossi in Israele dovrebbero andare a lavorare, come succede a New York. Non è più possibile dare a tutti i loro uomini un sussidio per studiare nelle scuole rabbiniche. Solo così si potrebbe risolvere il crescente problema fra laici e ultrareligiosi che sta agitando la società israeliana, afferma la scrittrice Manuela Dviri Vitali Norsa, intervistata dall'Adnkronos.
Il problema dello scontro fra laici e ultraortodossi "c'è sempre stato", nota la Dviri, ma ora "è cresciuto" perchè in questi anni "non vi è stata data una risposta" e nel frattempo il numero degli ultrareligiosi è aumentato perchè nelle loro famiglie vi sono "da sette a dieci-undici figli". Gli haredim, letteralmente "i timorati", i più religiosi fra gli ortodossi, "non fanno il servizio militare, gli uomini studiano nelle scuole rabbiniche e spesso le famiglie vivono in condizioni di semi povertà grazie alle piccole borse di studio dello stato. In genere lavorano solo le donne, nelle loro scuole o nel mondo dell'Hi tech".
All'interno di questo mondo, spiega l'autrice israeliana, "ci sono delle frange veramente fanatiche", una sorta di "religiosità anarchica, di rifiuto dello Stato". "La prima soluzione -afferma- è togliere loro queste borse di studio in modo che debbano lavorare, che escano da questa bolla irreale. Ritornare nella realtà aiuterebbe anche loro a vivere in una maniera piu economicamente dignitosa". E, se non fanno il servizio militare, dovrebbero almeno fare quello civile come gli arabi israeliani o le donne religiose. Del resto, ricorda la Dviri, nella tradizione ebraica, "solo i migliori venivano destinati allo studio" non certo tutti. (segue)
(Civ/Col/Adnkronos
Israele: la scrittrice Dviri, ultraortodossi dovrebbero lavorare come gli altri (2)
(Adnkronos) - Essendo in crescita numerica gli ultraortodossi vengono sempre più difesi in parlamento, nota la scrittrice, "ma verrà il momento in cui tutto questo dovrà cambiare, perchè non è possibile che i laici reggano sulle loro spalle chi non lavora".
Il mondo degli ortodossi, avverte la Dviri, è comunque vasto e articolato. "Va fatta una distinzione fra ortodossi 'light' che vivono vite normali, solo osservando maggiormente le regole della religione e indossano la papalina fatta all'uncinetto, poi vi sono quelli con la papalina nera, un pò meno 'light', le cui donne hanno la testa coperta, e infine vi sono gli haredim, e al loro interno quelli ancora più religiosi fino ad arrivare ai fanatici che addirittura non riconoscono Israele".
Il problema dello scontro fra laici e ultraortodossi "c'è sempre stato", nota la Dviri, ma ora "è cresciuto" perchè in questi anni "non vi è stata data una risposta" e nel frattempo il numero degli ultrareligiosi è aumentato perchè nelle loro famiglie vi sono "da sette a dieci-undici figli". Gli haredim, letteralmente "i timorati", i più religiosi fra gli ortodossi, "non fanno il servizio militare, gli uomini studiano nelle scuole rabbiniche e spesso le famiglie vivono in condizioni di semi povertà grazie alle piccole borse di studio dello stato. In genere lavorano solo le donne, nelle loro scuole o nel mondo dell'Hi tech".
All'interno di questo mondo, spiega l'autrice israeliana, "ci sono delle frange veramente fanatiche", una sorta di "religiosità anarchica, di rifiuto dello Stato". "La prima soluzione -afferma- è togliere loro queste borse di studio in modo che debbano lavorare, che escano da questa bolla irreale. Ritornare nella realtà aiuterebbe anche loro a vivere in una maniera piu economicamente dignitosa". E, se non fanno il servizio militare, dovrebbero almeno fare quello civile come gli arabi israeliani o le donne religiose. Del resto, ricorda la Dviri, nella tradizione ebraica, "solo i migliori venivano destinati allo studio" non certo tutti. (segue)
(Civ/Col/Adnkronos
Israele: la scrittrice Dviri, ultraortodossi dovrebbero lavorare come gli altri (2)
(Adnkronos) - Essendo in crescita numerica gli ultraortodossi vengono sempre più difesi in parlamento, nota la scrittrice, "ma verrà il momento in cui tutto questo dovrà cambiare, perchè non è possibile che i laici reggano sulle loro spalle chi non lavora".
Il mondo degli ortodossi, avverte la Dviri, è comunque vasto e articolato. "Va fatta una distinzione fra ortodossi 'light' che vivono vite normali, solo osservando maggiormente le regole della religione e indossano la papalina fatta all'uncinetto, poi vi sono quelli con la papalina nera, un pò meno 'light', le cui donne hanno la testa coperta, e infine vi sono gli haredim, e al loro interno quelli ancora più religiosi fino ad arrivare ai fanatici che addirittura non riconoscono Israele".
domenica 1 gennaio 2012
אליה אחמדי
כמו חוט אריאדנה, (זה שעזר לתזאוס לצאת מהמבוך) היה עבורי הבלוג של אליה אלמחדי, הבלוגרית המצרית . http://arebelsdiary.blogspot.com
כמו סירנה מפתה, מהסיפור על אודיסאוס, הצעירה המצרית גרמה לי להיכנס לעולמה ולעולם חבריה, צעירים מהפכניים מצריים, שלאחרונה נעלמו כמעט כולם מהכיכרות, אחרי הניצחון של האחים המוסלמים ושל הסלפיטים בבחירות לפרלמנט המצרי.
בתמונה שהיא צילמה את עצמה, היא יפהפייה ; יש לה עיניים שחורות, היא עירומה, נועלת נעליים אדומות, לובשת גרבי בריות סקסיות, ורד אדום בשערה שדייה קטנות ומוצקות, ועיניה מביטות במיקס של תמימות וחוסר בושה אל תוך המצלמה. בתמונות אחרות, היא מכסה בעזרת מדבקה את העיניים, את הפה ואת אבר המין. היא נראית כמו סתם ילדה, אבל היא לא.
היא אמיצה.
כל יום אני חוזרת לדף הבלוג שלה כדי לראות אם היא עדיין שם, אם לא החשיכו אותה, אם היא לא נעלמה. בפייסבוק היא איננה כבר. ומה- 23 לאוקטובר היא שותקת. כל עוד היא עדיין קיימת אני מרגישה יותר רגועה. היא מגדירה את עצמה חילונית, ליברלית, פמיניסטית, אינדיבידואליסטית וצמחונית. היא בת עשרים, ומאז שפרסמה את תמונתה היא הפכה לסלבריטי.
"צילמתי את עצמי בבית הורי" אמרה אליה לCNN , והסבירה שהמדבקות מייצגות את הצנזורה על הידע שלנו, על הביטוי שלנו ועל המיניות שלנו. בעמוד שלה היא מוסיפה שהיא זועקת כנגד חברה של אלימות, של גזענות, של הטרדה מינית ושל צביעות.
מאות הודעות נענו לפרובוקציה שלה. במדינתה מצרים, יותר ויותר נשים מתכסות בחיג'אב וניקב ויחד עם זאת מספר מקרי האונס וההטרדה המינית עולים מדי יום. בחלק מההודעות מברכים את אליה על אומץ לבה, אבל רבים מאוד, ביניהם גם המהפכנים של כיכר תחריר, בזים לה ופוגעים בה. ההודעה האחרונה שאני קוראת היא של אישה שמאשימה אותה בכך שהיא יותר גרועה מבהמה. לדבריה, החופש אינו חופש להתפשט והאדם נולד עירום אבל צריך להתבייש במערומיו. אחרים מפקפקים באפשרות שיוזמתה תוכל באמת לעזור למצב האישה במצרים ובעולם הערבי כולו.
הקריאה של אליה חצתה במהירות את המרחק הגאוגרפי הזעיר שבין מצרים לישראל, מרחק שהוא כמעט בלתי עביר היום מבחינה פוליטית. אור טפלר, בחורה ישראלית בת עשרים ושמונה, החליטה להיענות לפרובוקציה. היא הוציאה קריאה בפייסבוק וגרמה לארבעים נשים ישראליות להיפגש ולהצטלם יחד ערומות, כדי להראות את התמיכה שלהן "בצורה לגיטימית ובלתי אלימה" לדבריהן.
"אנחנו עונות לה כי היא אישה כמונו, צעירה, אמביציוזית, ומלאת חלומות....וכדי לתת לעולם הזדמנות להתבונן ביופי המיוחד של הנשים הישראליות", הן אמרו. ולפניהן הציבו שלט, כתוב בערבית ובעברית, שאומר: "תמיכה באליה אחמדי - האחיות הישראליות".
למעשה גם לאחיות הישראליות יש מה לדאוג.
היופי שלהן, שהוא כל כך חופשי ופתוח בתל אביב, נעשה יותר ויותר נדיר ברחובות ירושלים, עיר שבה יש נשים יהודיות שבוחרות לנסוע באוטובוס נפרד, גברים מקדימה, נשים וילדים מאחור. עיר שבה פניהן של נשים נעלמות משלטי החוצות כדי לא לפגוע ברגישויות של הדתיים.
מלחמת התרבויות בין העולם הדתי, שטבעו פונדמנטליסטי וטוטאלי, לבין העולם החילוני, שטבעו מודרני וליברלי, כבר החלה והיא חוצה דתות ומדינות במזרח התיכון. האם יצליחו אור ואליה והחברות במזרח התיכון במשימתן? אני פסימית.
ובינתיים אני רצה לראות אם אליה עדיין שם. בתמונה שלה, בבלוג שלה. והיא עדיין שם, ולבלוג הגיעו תמונות, ציורים ובדיחות חדשות מנשים מכל העולם.
בקשר לאור, אני לא דואגת לה. בישראל, לעת עתה, הדמוקרטיה, אם כי בקושי, עדיין מחזיקה מעמד.
כמו סירנה מפתה, מהסיפור על אודיסאוס, הצעירה המצרית גרמה לי להיכנס לעולמה ולעולם חבריה, צעירים מהפכניים מצריים, שלאחרונה נעלמו כמעט כולם מהכיכרות, אחרי הניצחון של האחים המוסלמים ושל הסלפיטים בבחירות לפרלמנט המצרי.
בתמונה שהיא צילמה את עצמה, היא יפהפייה ; יש לה עיניים שחורות, היא עירומה, נועלת נעליים אדומות, לובשת גרבי בריות סקסיות, ורד אדום בשערה שדייה קטנות ומוצקות, ועיניה מביטות במיקס של תמימות וחוסר בושה אל תוך המצלמה. בתמונות אחרות, היא מכסה בעזרת מדבקה את העיניים, את הפה ואת אבר המין. היא נראית כמו סתם ילדה, אבל היא לא.
היא אמיצה.
כל יום אני חוזרת לדף הבלוג שלה כדי לראות אם היא עדיין שם, אם לא החשיכו אותה, אם היא לא נעלמה. בפייסבוק היא איננה כבר. ומה- 23 לאוקטובר היא שותקת. כל עוד היא עדיין קיימת אני מרגישה יותר רגועה. היא מגדירה את עצמה חילונית, ליברלית, פמיניסטית, אינדיבידואליסטית וצמחונית. היא בת עשרים, ומאז שפרסמה את תמונתה היא הפכה לסלבריטי.
"צילמתי את עצמי בבית הורי" אמרה אליה לCNN , והסבירה שהמדבקות מייצגות את הצנזורה על הידע שלנו, על הביטוי שלנו ועל המיניות שלנו. בעמוד שלה היא מוסיפה שהיא זועקת כנגד חברה של אלימות, של גזענות, של הטרדה מינית ושל צביעות.
מאות הודעות נענו לפרובוקציה שלה. במדינתה מצרים, יותר ויותר נשים מתכסות בחיג'אב וניקב ויחד עם זאת מספר מקרי האונס וההטרדה המינית עולים מדי יום. בחלק מההודעות מברכים את אליה על אומץ לבה, אבל רבים מאוד, ביניהם גם המהפכנים של כיכר תחריר, בזים לה ופוגעים בה. ההודעה האחרונה שאני קוראת היא של אישה שמאשימה אותה בכך שהיא יותר גרועה מבהמה. לדבריה, החופש אינו חופש להתפשט והאדם נולד עירום אבל צריך להתבייש במערומיו. אחרים מפקפקים באפשרות שיוזמתה תוכל באמת לעזור למצב האישה במצרים ובעולם הערבי כולו.
הקריאה של אליה חצתה במהירות את המרחק הגאוגרפי הזעיר שבין מצרים לישראל, מרחק שהוא כמעט בלתי עביר היום מבחינה פוליטית. אור טפלר, בחורה ישראלית בת עשרים ושמונה, החליטה להיענות לפרובוקציה. היא הוציאה קריאה בפייסבוק וגרמה לארבעים נשים ישראליות להיפגש ולהצטלם יחד ערומות, כדי להראות את התמיכה שלהן "בצורה לגיטימית ובלתי אלימה" לדבריהן.
"אנחנו עונות לה כי היא אישה כמונו, צעירה, אמביציוזית, ומלאת חלומות....וכדי לתת לעולם הזדמנות להתבונן ביופי המיוחד של הנשים הישראליות", הן אמרו. ולפניהן הציבו שלט, כתוב בערבית ובעברית, שאומר: "תמיכה באליה אחמדי - האחיות הישראליות".
למעשה גם לאחיות הישראליות יש מה לדאוג.
היופי שלהן, שהוא כל כך חופשי ופתוח בתל אביב, נעשה יותר ויותר נדיר ברחובות ירושלים, עיר שבה יש נשים יהודיות שבוחרות לנסוע באוטובוס נפרד, גברים מקדימה, נשים וילדים מאחור. עיר שבה פניהן של נשים נעלמות משלטי החוצות כדי לא לפגוע ברגישויות של הדתיים.
מלחמת התרבויות בין העולם הדתי, שטבעו פונדמנטליסטי וטוטאלי, לבין העולם החילוני, שטבעו מודרני וליברלי, כבר החלה והיא חוצה דתות ומדינות במזרח התיכון. האם יצליחו אור ואליה והחברות במזרח התיכון במשימתן? אני פסימית.
ובינתיים אני רצה לראות אם אליה עדיין שם. בתמונה שלה, בבלוג שלה. והיא עדיין שם, ולבלוג הגיעו תמונות, ציורים ובדיחות חדשות מנשים מכל העולם.
בקשר לאור, אני לא דואגת לה. בישראל, לעת עתה, הדמוקרטיה, אם כי בקושי, עדיין מחזיקה מעמד.
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