Ho conosciuto la famiglia Ben Bassat in una giornata di grande gioia, il giorno del matrimonio di una delle loro quattre figlie, Sivan, con un nipote di mio marito. I Ben Bassat vivono in una colonia nei territori occupati di nome Neve Zuf, 35 minuti da Gerusalemme, 45 da Tel Aviv, una ventina da Ramallah.
La zona è collinosa, poco abitata, appena segnata qua e là da pastorali villaggi palestinesi. Mai ero stata prima, e di mia spontanea volontà, in una colonia israeliana nei "territori".
"Slacciati la cintura" mi ha consigliato Avraham, il compagno della mia vita, appena passato il primo check point, "stiamo superando la linea verde" (la linea verde è una linea immaginaria che separa l'Israele di prima della guerra dei Sei giorni del 1967 dai territori occupati durante quella guerra. Solo in Cisgiordania, tra colonie e avamposti illegali, vivono circa 300.000 coloni), "poi allacciala sul sedile e siediti sopra così non suona. Bisogna essere pronti a saltar fuori rapidamente in caso di bisogno" ha detto "e non dimenticarti di appenderti al collo un cartello che dice che sei una di quelle brave, tanto di sinistra, altrimenti che figura ci fai se ti colpisce una pietra proprio qui? Che diranno di te?" ha sghignazzato. E, suo malgrado, si è fatto serio, le mani tese sul volante... "Ecco le luci, stiamo arrivando..." si è lasciato scappare con un sorriso di sollievo, "no, ancora no... non abbiamo per caso sbagliato strada?..." e giusto in quel momento due o tre pietre ci sono cadute addosso da un piccolo promontorio sovrastante. Ho alzato la testa: se l'erano già data a gambe.
Alcuni minuti dopo eravamo davanti al filo spinato, ai soldati, alle jeep e alla bandiera bianca e azzurra della colonia di Neve Zuf, incolumi. Soltanto, mi tremavano un po’ le gambe. Lungo quella strada sono morte, negli anni, almeno tre persone. Decine ne sono rimaste ferite, anche gravemente. Colpite dalle pietre o attaccate con armi da fuoco.
Ma come si riesce a vivere così? A non morire di paura ogni volta che si esce di casa e ogni volta che ci si torna? Chi sceglie, e perché, di vivere in una colonia israeliana isolata, tra villaggi palestinesi ostili? E si chiede perché sono ostili?
Impossibile trovare un'unica risposta: all'interno del popolo dei coloni, apparentemente compatto nel rifiuto al dialogo con i palestinesi e al congelamento o smantellamento di colonie, esistono correnti di pensiero totalmente diverse, spesso in aperto contrasto l'una con l'altra, dal fanatismo religioso fondamentalista alla tranquilla borghesia dei proprietari delle villette a buon prezzo, dai militanti hard agli idealisti light, ai moderati, ai creativi, ai biblico-anarchici violenti. Vivono a Maale Adumim (45.000 abitanti) e a Modiin Ilit (38.000), ma anche negli avamposti (che sono colonie illegali) di Ytzar o Migrom, o Neve Daniel, fino a quelli minuscoli di poche decine di persone.
In comune hanno la sensazione che il loro futuro e il loro stesso destino siano di minimo interesse per lo "Stato Tel Aviv", la capitale laica del Paese, vista come interessata soltanto ai piaceri della vita, sfrontata nel suo desiderio di vivere e godere. La stragrande maggioranza dei "telavivim" non è mai stata nei territori, e la notte dorme tranquillamente anche se nelle ultime tre settimane centinaia di pietre e alcune bombe molotov sono state tirate ogni venerdì, all'uscita dalla moschea, ai veicoli in viaggio verso Neve Zuf.
Non senza fatica, quindi, sono tornata a Neve Zuf per incontrare, questa volta, gli amici e i vicini dei Ben Bassat .
Michael Rozenblu, professore di fisica.
"La nostra famiglia si è trasferita qui immediatamente dopo gli accordi di Oslo. Lo abbiamo fatto perché consideravamo Oslo un gravissimo, pericolosissimo errore, un accordo che voleva convincerci che l'illusione della pace con i palestinesi potesse diventare una realtà possibile. Anche noi vogliamo la pace, chi non vuole vivere in pace? Ma se Oslo avesse funzionato, avrebbe addirittura permesso la costruzione dello Stato palestinese, e sarebbe stata una tragedia perché gli arabi, i musulmani, non ci vogliono qui. Loro vogliono la Jiad, la guerra santa, come aveva detto più che chiaramente Arafat stesso.
E poi noi siamo qui per ribadire il diritto degli ebrei a vivere ovunque nel mondo, Palestina compresa".
"Ovunque" in Palestina?
"Anche vivere in Israele è pericoloso..."
Ma se lei non crede che la pace sia possibile o, come direbbe l'ex parlamentare Elyakim Haetzni, se "la pace è un falso idolo", se non dovrà mai nascere uno Stato palestinese, che futuro immagina per la sua famiglia, i suoi figli, i suoi nipoti?
“Noi continueremo a vivere qui, assieme ai palestinesi, in un unico Stato”.( Neve Zuf si trova nella zona che in caso di accordo diventerebbe probabilmente parte della Palestina ndr)
Quindi è d'accordo con la sinistra radicale che parla di un unico Stato per i due popoli…
“Se la mette così, certo”.
Con diritto di voto per tutti?
“Per le elezioni amministrative”.
E per quelle politiche?
“Per quelle politiche i palestinesi voteranno in Giordania”.
Ma non credo che i giordani siano d'accordo...
“La Giordania è il vero Paese palestinese” ha tagliato corto il professore.
La teoria della Giordania, politicamente un po’ fantasiosa, è anche quella della donna simbolo Daniela Weiss, che in altri tempi e in un altro mondo, era stata, ragazzina molto per bene, amica di mio marito (pare che allora fosse anche molto carina), per poi diventare, da adulta, la pasionaria dei coloni, estremista, dura, intransigente. Mi fa sempre molta impressione rivederla.
Nel salotto dei Ben Bassat, a Neve Zuf, Miriam Binun sembra l'esatto contrario. È gentile, sorridente, tranquilla.
"Siamo arrivati qui 32 anni fa. Vivevamo poco lontano da Tel Aviv, ma ci mancava qualcosa. Non eravamo felici. Dopo la nascita del terzo figlio abbiamo deciso di fare una scelta, di andare a vivere in un luogo in cui la nostra presenza avrebbe contribuito a creare qualcosa di nuovo, d’importante, secondo il nostro ideale sionista. La scelta era tra vivere in Galilea o qui. Abbiamo dato le dimissioni dal lavoro, e alla fine, un po’ per caso, siamo arrivati qui. E qui abbiamo costruito la nostra casa, uno chalet di legno: mio marito l'ha voluto che somigliasse agli chalet svizzeri che lui ricordava dai tempi in cui era stato rifugiato in Svizzera. Siamo i più anziani del luogo, nostro figlio è stato il primo bambino dell'asilo".
Che cosa ama in particolare di questo luogo?
“Le montagne, la splendida vista dalle mie finestre... la mia vicina. Agli inizi, veramente, anche i rapporti coi vicini palestinesi erano ottimi”.
Edna Ben Bassat:
"... Un vicino palestinese aveva perfino la mia chiave di casa. Erano altri tempi. Io sono la più giovane del gruppo dei pionieri che ha fondato questa colonia. Quanto poco capivo allora. All'inizio, assieme ad altre 10 famiglie, abbiamo vissuto tutti insieme in un vecchio edificio dei tempi degli inglesi, con il bagno in comune. Poi, per mesi, in camper. Non avevamo neppure l'acqua corrente. E, che sia chiaro, siamo venuti qui incoraggiati dal governo, non sapevo che alla fine sarei diventata un nemico del popolo, una ‘colona’".
Che cosa vuol dire essere una colona?
"Essere considerata una estremista, una pazza. Una fondamentalista. Dopo l'uccisione di Rabin, soprattutto, mi guardavano male, come se dovessi chiedere scusa in continuazione. Abbiamo vissuto qui due intifade. Molti se ne sono andati, molti altri immagino saranno pronti ad andarsene appena lo Stato sarà pronto a risarcirli".
Yossi Binun, il marito di Miriam:
"Io, invece, non ho paura. Se vedo dei pericoli, li vedo per lo Stato d'Israele in generale, non per noi in particolare. E voglio ribadire che noi non siamo degli estremisti. Non siamo i giovani delle colline".
(I giovani delle colline, seconda o terza generazione di coloni, sono facilmente riconoscibili, perché è come se fossero sempre in divisa: gli uomini hanno lunghi riccioli al vento ai lati del volto, enormi "kippot" - papaline - in testa, frange rituali e pistola alla cintura. Le donne hanno i capelli raccolti sotto un fazzoletto girato tutto intorno, gonne che toccano terra o pantaloni con sopra la gonna, intorno una miriade di bambini più uno in pancia. Si ritengono l'avanguardia dei coloni e il loro motto è "intanto si costruisce e prima o poi il permesso arriverà". Non hanno nulla di borghese o di accomodante: messianici e mistico-nazionalisti, vivono negli avamposti, nei luoghi più remoti, in cima a colline; vogliono fare i pastori e agricoltori, sono violenti nei confronti dei palestinesi, considerano la sinistra israeliana un loro nemico e non hanno il minimo dubbio: questa è la nostra terra, e da qui non ci muoveremo mai...)
Miriam Binun:
"... Non solo non ci riconosciamo per niente nei giovani delle colline, ma non abbiamo neanche fatto assolutamente nulla d’illegale, e, ciò malgrado, in Israele ci incolpano di tutto: se mancano i soldi per nuove strade o per nuove scuole è sempre perché si spende troppo per le colonie... Se non c'è la pace è colpa delle colonie...".
E invece?
Yossi: "Anche noi siamo aperti alla pace e desideriamo la pace, ma se la pace non arriva dobbiamo continuare a convivere con la guerra".
Michael Rozenblu: "Ma no! È ora di smetterla di illuderci. Con l'Islam non si arriva a nessuna pace, vedi Cecenia, Indonesia, Afganistan, tanto per fare un esempio".
Edna Ben Bassat: "È vero che la situazione è tanto peggiorata, in questi anni. Ma com'è peggiorata, potrebbe anche migliorare...".
Michael Rozenblu:
"Sei troppo ottimista. E poi ormai non siamo più lo stesso popolo. Siamo diventati gli ebrei di Israele, così come una volta eravamo gli ebrei del mondo...".
Con queste ultime parole nelle orecchie, me ne sono tornata a casa col cuore pesante e la sensazione che "i due stati per due popoli" sia ormai una formula vuota di significato, ridotta dalla realtà in loco in un mantra insensato.
Ma se un unico Stato, che Stato?
Avraham e io ne abbiamo discusso a lungo, mentre facevamo all'inverso la strada che ci avrebbe portato a Tel Aviv.
Che realtà attende i nostri figli e nipoti? Ci siamo chiesti, angosciati, senza trovare risposta.
In memoria di Sivan Ben Bassat Dviri, la giovane figlia Di Edna e Rafi Ben Bassat, morta di encefalite a 23 anni, tre mesi dopo il matrimonio, sepolta a Neve Zuf.
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