domenica 12 settembre 2010

da mercoledì a sabato sera....e la verità

abbiamo festeggiato il capodanno con figli e nipoti. al mio ritorno ho trovato questi due articoli che mi ha spedito beppe damascelli. riguardano l'italia ma in realtà riguardano il mondo , perchè la verità riguarda tutti i cittadini del mondo.


insieme a quello di Claudio Fava, apparso l'11 settembre il bellissimo articolo di Giorgio Fontana pubblicato dal Manifesto il 12 agosto.
L'UNITA', 11.09.2010
FURTI DI MEMORIA
Claudio Fava
I nostri eroi che se la sono cercata
In memoria grata di quelli che hanno preferito farsi gli affari del Paese a costo della vita: da Vassallo a Borsellino, da Ambrosoli a Falcone.
Anch’io ne conosco parecchi, come dice Andreotti, che se la sono cercata. Che invece di farsi gli affari loro, di calare la testa come giunchi di paglia aspettando che se ne andasse via la mala giornata, hanno avuto la sfrontatezza di far bene il loro mestiere: giornalisti, giudici, sindacalisti, commercianti, politici. Se l’è cercata, tre giorni fa, il sindaco Vassallo che invece di dire sempre no a quei galantuomini della camorra ogni tanto qualche “forse” poteva pure farlo sentire o no? Se la cercò Libero Grassi, diciamolo senza stare a girarci attorno: chi glielo portava, benedetto cristiano, ad andare in televisione per dire che lui il pizzo non l’avrebbe mai pagato? Glielo spiegò pure il presidente dei commercianti palermitani, usando come una profezia le stesse parole di Andreotti: che tu così te la stai cercando, lo sai? Forse lo sapeva, forse no: comunque lo ammazzarono tre giorni dopo.

Se l’è cercata Falcone, se l’è cercata Borsellino, se la sono cercata Terranova, Costa, Chinnici: potevano fare i giudici come si suggerisce adesso, processi corti, brevi, stretti, un occhio di riguardo a chi se lo merita, cassetti generosi per ingoiare e dimenticare i fascicoli più sfacciati. E invece no: la mafia, i mafiosi, gli amici intoccabili dei mafiosi… come un’ossessione, una compulsione, un’ansia di carriera. Ecco, professionisti. Nella vita e nella morte: se la sono cercata, questa loro bella morte, di che si vengono a lamentare oggi gli orfanelli?
Se la cercò pure il generale Dalla Chiesa, e su questo Andreotti era già stato allusivo quanto basta due giorni dopo che l’ ammazzarono. Venne a lagnarsi da me di suo figlio Nando, disse in un’ intervista, quel ragazzo gli dava solo dispiaceri... Mentiva, grossolanamente. Ma a tanti piacque credergli. E’ questo il punto.

Andreotti, amico conclamato di capi mafia che protesse e curò in salute per lo meno fino al 1980 (sta scritto nelle sentenze), interpreta un senso comune molto volgare ma molto diffuso. Che si esaurisce in due parole: cazzi loro. Di chi ha voluto fare l’eroe ad ogni costo, di chi s’è messo a fare il poeta, il don Chisciotte, il cacciatore di draghi e mulini a vento, il fustigatore di costumi. Cazzi suoi, se Ambrosoli se la volle prendere proprio con la P2 e Michele Sindona, il banchiere che salvò la lira (Andreotti dixit). Quando Giovanni Falcone, dopo l’attentato all’Addaura, cominciò ad andare incontro alla propria morte, il Giornale di Sicilia ricevette una letterina (che subito pubblicò, incorniciata come un Picasso) da parte di un gruppo di cittadini palermitani. Erano i vicini di casa del giudice e gli mandavano a dire che, orgogliosi delle sue battaglie, preferivano che se l’ andasse a combattere altrove: che se poi lo facevano saltare in aria davanti al portone com’era accaduto alla buon’anima di Rocco Chinnici, chi l’avrebbe pagato il conto per rifare l’intonaco alla facciata?

Andreotti, ormai prossimo a rendere conto a chi di dovere delle proprie verità e delle proprie menzogne, ha detto solo quello che pensa e che ha sempre pensato. Su Ambrosoli e su quanti hanno ritenuto, in questi anni, di dover mettere la vita al servizio della propria onestà intellettuale. Nella miseria di quelle sue parole, è stato sincero. E adesso possiamo girarci attorno quanto vogliamo, ma sappiamo che sono due idee di Italia inconciliabili tra loro: da una parte l’ex presidente del Consiglio, dall’altra Ambrosoli e quelli come lui.

In mezzo ci siamo noi, notai del nulla, pronti sempre a distinguere, a comprendere, a spiegare che è vero ma anche, ad ammirare i furbi, a sorridere di complicità su ogni volgarità, a maledire i Palazzi in attesa d’essere invitati a pranzo anche noi. E a trovare sempre un pretesto per parlar d’altro, per indignarci d’altro, per cambiare canale.

Non mi convincerete a chiamarlo senatore, il signor Andreotti. Né in questo pezzo né mai. Sono quelli come lui i veri clandestini della repubblica, non i nigeriani che sbarcano a nuoto sulle nostre spiagge. In fondo ce la siamo cercata anche noi, facendo finta per tutti questi anni che quelli come Andreotti siano stati davvero padri della patria. Non certo la nostra patria, non certo la mia patria.

11 settembre 2010


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"Gli italiani furono spesso accusati, a torto o a ragione, di non rispettare sufficientemente la verità. Va detto che poche persone in qualsiasi paese hanno per la verità un rispetto religioso; gli italiano non sono diversi dagli altri uomini. [...] Tuttavia, collettivamente, sembrano dimenticare, talora, l'importanza unica della verità. Spesso la ignorano, l'abbelliscono, vi ricamano intorno, la negano, a seconda dei casi."
Così Luigi Barzini, nel suo classico Gli italiani. Sono passati cinquant'anni, ma la frase sembra descrivere alla perfezione il presente. Allora lo spregio della verità è in realtà un tratto tipico della nostra storia? Chissà: in ogni caso, non mi pare abbia mai raggiunto forme gravi quanto quelle degli ultimi anni. Non è mai stato così istituzionalizzato e diffuso, reso sistema invece che norma di sopravvivenza quotidiana.
Ricordate il caso Di Bella? I media dicevano che la sua cura contro il cancro era miracolosa, quando in realtà tutti gli oncologi avevano espresso il massimo scetticismo. Ma Di Bella era televisivo, era perfetto, era un padre Pio laico della medicina. L'importante non erano i fatti quanto la comunicabilità di un evento. Era il 1997, e fu un simbolo evidente della tendenza progressiva a equiparare del parere degli esperti a quello di chiunque altro — purché interessante. Un po' come chiedere a Cannavaro cosa ne pensa di Saviano, e prendere la sua opinione per autorevole, perché uscita da una bocca celebre.
In questi casi, la verità non è il fine dell'indagine. Il fine dell'indagine è raccontare una storia. Cifra di questo atteggiamento è il trionfo della figura dell'opinionista: affondiamo in una quantità di pareri e idee senza una bussola in grado di orientarci correttamente verso i fatti. E mentre l'opinionismo è spacciato come è simbolo della libertà di parola e della democratica espressione dei propri giudizi, in realtà eleva il parere a verità — un arlecchino di giudizi che si scontrano, e fra le quali emerge solo quello più potente.
Poco tempo fa, la filosofa Franca d'Agostini ha pubblicato un saggio dal titolo eloquente: Verità avvelenata (Bollati Boringhieri 2010). L'idea è indagare le forme di argomentazione presenti nel discorso pubblico e mostrare, con esempi tratti per lo più da affermazioni di politici, quanto le fallacie logiche siano presenti ovunque nelle società democratiche, e in Italia oggi: "qualsiasi verità risulta fin da principio contaminata da uno sfondo di preliminare sospetto." Delegittimare, insultare, avvelenare l'intero pozzo del dibattito. Perché tutto questo? Ci sono delle ragioni generali (come il fatto, indicato dall'autrice, che le regole stesse del discorso razionale sono incerte), ma nel caso dell'Italia contemporanea ci sono anche ragioni più circostanziate. Contingenze storiche che hanno portato a quello che ritengo il segno più vasto della crisi democratica del Paese: lo spregio per la verità e la razionalità, il disinteresse per la buona argomentazione.
Come sempre, Berlusconi è insieme causa, sintomo e simbolo di questo problema. Nell'ormai classico articolo di Gomez e Travaglio uscito su "l'Espresso" il 13 maggio 2004, i due autori raccontano quarantaquattro bugie dette dal premier, "escludendo i 115 minuti di deposizione spontanea al processo Sme-Ariosto (durante il quale Berlusconi riuscì a pronunciare ben 85 bugie allo straordinario ritmo di una balla ogni 81 secondi)".
La cosa interessante che questo modo di ragionare — lo spregio totale per l'idea di verità — sembra aver attecchito un po' ovunque. Berlusconi, quando è cosciente di dire il falso, lo dice tranquillamente perché sa che ormai la verità non può sconfiggere più le sue affermazioni: non è, per così dire, attiva nel mondo. Quindi verità e falsità sono concetti che non interessano più — basta dire ciò che serve al momento, magari smentirlo domani, non ha importanza.
D'Agostini parla di "costruzione di una realtà2" basata sulla comunicazione e non sull'informazione, e il processo di tale costruzione è stato lungo e diabolicamente meticoloso, nel corso degli ultimi vent'anni. Ma la costante emissione di parainformazioni e il continuo vivere in una "realtà2" ha prodotto una risposta coerente da parte di chi ascolta, e la colpa non è limitabile a chi parla. In altri termini: si sta smarrendo l'idea di un pubblico etico, di un pubblico capace di recepire la verità. Credo sia questa la grande differenza marcata dal berlusconismo: l'erosione della verità ora è dolorosamente sociale e diffusa ovunque.
Come scrive Davide Tarizzo in un saggio dell'antologia Forme contemporanee del totalitarismo (Bollati Boringhieri 2007): "la sfera del senso viene completamente integrata e assorbita nella sfera dell'assenso. L'ambiguità è il suo sentimento più veritiero." In una politica dell'applauso, dove la claque sottolinea un fatto accettandolo e mettendolo in ostensorio, il dissenso o la critica perdono di valore. Ma è proprio dalla volontà di dubitare e mettere in discussione — dall'umiltà e l'incertezza — che nasce la ricerca seria.
Ora, questo spregio per la verità come bene non è cosa nuova, e ha un vago sentore democristiano. Nello splendido monologo de Il divo, Sorrentino mette in bocca ad Andreotti un'argomentazione di stampo cattolico: la massima responsabilità è salvare il bene facendo il male, ignorando la questione della verità. Una simile metafisica è la stessa, in fondo, del Grande Inquisitore di Dostoevskij: sacrificando la libertà per la legge, si assicura una pretesa salvezza.
Se questa interpretazione è corretta, potremmo dire che tale politica del falso era in "buona fede" — per quanto carica di molte responsabilità civili e umane. Al contrario, la torsione finale del berlusconismo è lo spregio della verità in quanto tale, per ragioni assolutamente private. Dire il vero non è un elemento pericoloso in una visione delle cose, ma soltanto un dato pratico che va eliminato, perché rischia di compromettere il regno della menzogna — del "fa' come ti pare". C'è dunque una palese tensione etica del falso, o meglio ancora dell'indifferenza verso la separazione tra vero e falso. Il potere< sommerge la verità, la rende inutile: a emergere è la soluzione più forte, più interessante o più supportata — non la più plausibile.
E sempre per questo motivo, la colpa è "dei magistrati" e "dei giornalisti". Perché "fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità" (sentenza n. 255/1992, presidente A. Corasaniti, redattore M. Ferri). E perché "è diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d'informazione e di critica, limitata dall'osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e della buona fede" (legge n. 69, 3/02/1963, art. 2). Di qui la necessità della legge bavaglio e della sua estensione ai blogger. Tout se tient: il tema della verità è il filo rosso per comprendere l'inabissarsi della nostra etica pubblica.
Come reagire?
Alcuni pensano sia necessario un esame critico dell'idea di verità. Ad esempio Gianni Vattimo, che nel suo Addio alla verità (Meltemi 2009) propone di abbandonare questo concetto. Il ragionamento suona più o meno così: visto che c'è stato e c'è un uso ampiamente strumentale del vero come corrispondenza ai fatti, e uno svilimento totale del suo valore, la cosa migliore è lasciarlo perdere. Non ci sono verità disinteressate, l'oggettività è sempre schiava di determinati interessi. Qui Vattimo compie due errori tipici del relativismo: pensare che tutta la verità si riduca a Verità assolute (quelle religiose o di etica generale), e ritenere che in ogni caso ogni affermazione di verità corrisponda all'imposizione di una pretesa di dominio.
Ma questa è una reazione figlia della crisi, e non risolve nulla. Porta anzi ad assurdità palesi, come quando Vattimo parla della ricerca scientifica: "Magari [questi scienziati] cercano solo di vincere il premio Nobel, e anche questo è un interesse" (p. 25). Una conclusione che lascia quantomeno a bocca aperta.
Inoltre, c'è una miriade di verità con la "v" minuscola che sono perfettamente neutrali e sulle quasi ci basiamo ogni giorno: perché trascurarle? Pensare che chiunque dica il vero si arroghi una pretesa di dominio sull'altro — come se non esistesse alcuna verità condivisibile, come se lo stesso concetto uccida qualunque forma di dialogo o scetticismo — è un rimedio peggiore del male.
E allora, non sembra esserci atra prospettiva che quella di tornare alla buona vecchia etica della verità. La comprensione critica e morale del mondo non può che passare da questo concetto: minimale quanto si vuole, ma indispensabile. Che si tratti di comprare un chilo di pesche, o di dibattere attorno ai temi della bioetica.
Si può obiettare che non è affatto un compito facile. Certo: è estremamente delicato e comporta molti problemi: la responsabilità di fissare dei limiti, di trovare delle basi comuni, di argomentare con chiarezza, di fidarsi di determinati esperti, e soprattutto l'eterno rischio di sbagliare o cadere nella presunzione.
Ma questa è la condizione umana. Possiamo divorare il loto dell'egoismo e fregarcene che l'opinione pubblica venga inquinata dalla falsità. Oppure, possiamo accettare che bene e verità siano cose fragili e complesse, ma proprio per questo così bisognose d'attenzione. La scelta è solo nostra. Compiamola con responsabilità.
giorgio.fontana81@gmail.com


IL MANIFESTO, 12.08.2010
La verità ai tempi di Berlusconi
GIORGIO FONTANA

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