במשך שבוע שלם מהיום שנודע על שחרורו של גלעד שליט לא שמענו אלא על גלעד שליט, לא ראינו אלא גלעד שליט, לא קראנו אלא גלעד שליט, לא דיברנו אלא גלעד שליט, וזאת אחרי חודשים ושנים ארוכות של קמפיין מפואר, מאוד אישי, קדחתני, במהלכו דמותו נכנסה לבית של כל משפחה והפך ללא ידיעתו ל"ילד של כולנו".
עד כדי כך נכנס לחיינו שנכדותיי התאומות בנות השלוש יודעות לדקלם איך בדיוק הוא נשבה, כמה כואב להוריו ומתי ואיך הוא יחזור. אתמול בתכניות רדיו וטלוויזיה אינסופיות נראו מנחים מותשים, טוחנים דק דק את הנושא, עם הורים שכולים בעד ובנגד, משפטנים, מומחים, אלופים במיל' וקולונלים בהווה, שבויים לשעבר מסוריה ומצרים ופסיכולוגים למצבי חירום. הרגשתי שהכל כל כך דחוס ומיותר, הרגשתי צורך בשקט. די למילים, הייתי זקוקה לאוויר.
והיום, ברגע מזוקק אחד, הכל השתנה אצלי: גלעד שליט סוף סוף חזר. והוא לא ילד, והוא ודאי לא שלנו, הוא בטח לא של ראש הממשלה למרות שהוא ניסה לנכס אותו לעצמו, ובסופו של דבר גם לא של אבא ואמא. פתאום הכרנו חייל צעיר, אדם בזכות עצמו, לחוץ, רזה אבל גם רהוט, רציני ואינטיליגנטי.
האיש הצעיר הזה עלה למדינה שלמה במחיר יקר מאוד אבל אל לנו לבקש שיחזיר לנו משהו בתמורה. מגיע לו סוף סוף לחיות את חייו שלו ושישכח מאיתנו ושאנחנו נניח לו, גם אם מחרתיים אחד המשוחררים יחזור לסורו ויעשה מה שכל כך חששנו ממנו. זה מה שכל אחד מאחל לילד שלו.
הכותבת היא עיתונאית, והיתה פעילה למען היציאה מלבנון
martedì 18 ottobre 2011
il ritorno di gilad shalit ( un mio articolo da vanity fair online )
http://www.vanityfair.it/news/mondo/2011/10/18/manuela-dviri-gilad-shalit-forza
Questa mattina le mie nipotine, due gemelle di tre anni, erano tutte eccitate. «Oggi», dicevano, «Gilad Shalit torna a casa». Ho chiesto loro chi fosse, questo Gilad Shalit, e mi hanno risposto: «All'asilo ci hanno spiegato che delle persone cattive lo hanno strappato ai suoi genitori ma che finalmente torna a casa». Tutti gli israeliani, che abbiano tre o cento anni, si sono messi stamane davanti alla televisione o alla radio, a seguire le immagini di questo giovane caporale. Improvvisamente, Gilad Shalit è diventato parte delle nostre famiglie. Tutto Israele ha chiesto che venisse liberato.
Le prime immagini che abbiamo visto sono quelle di un ragazzo molto pallido e molto magro, quasi abbagliato dalla luce, avvolto in una divisa paramilitare. Due persone lo sostengono, come se non riuscisse a reggersi in piedi da solo. Una giornalista egiziana lo intervista, quasi fosse un interrogatorio. Lui risponde in ebraico e le sue risposte sono immediatamente tradotte in arabo. Tra una risposta e l'altra respira a fondo, come se fosse vittima di un'enorme tempesta emotiva interna. Gli chiedono quali sono i suoi piani per il futuro. «Sogno il momento in cui rivedrò i miei genitori». «Ho temuto di non tornare mai». «Spero che questo scambio sia un passo avanti per la pace», risponde. E sorride. Sono i primi sorrisi da quando è stato rilasciato. Ora sembra meno fragile. Gli chiedono se vuole aggiungere qualcosa, ma lui è finalmente un uomo libero: non vuole più rispondere, si alza e se ne va. Il commentatore israeliano dice che per un ragazzo che è stato per cinque anni tagliato fuori dal mondo non sembra così perso come si temeva. Alla televisione un ex prigioniero delle carceri siriane spiega il modo di muoversi di Gilad. Si muove come se fosse seduto su una sedia a dondolo, e questo è tipico di chi è stato a lungo in carcere e si trova in una situazione emotiva difficile.
Shalit ha da fare: deve tornare in Israele. Lo attendono le visite dei medici e poi il primo ministro. Solo allora, finalmente, potrà riabbracciare i suoi genitori. Ma questo incontro rimarrà segreto. Tutti noi credevamo di conoscerlo, dopo aver visto la sua immagine stampata ovunque, ma ci sbagliavamo. È molto più forte di quanto ci aspettassimo. Credevamo di veder tornare a casa un ragazzino distrutto. E invece il ragazzino è tornato a casa giovane uomo, coerente, lungi dall'essere distrutto dopo ben cinque anni e mezzo di isolamento.
Questa mattina le mie nipotine, due gemelle di tre anni, erano tutte eccitate. «Oggi», dicevano, «Gilad Shalit torna a casa». Ho chiesto loro chi fosse, questo Gilad Shalit, e mi hanno risposto: «All'asilo ci hanno spiegato che delle persone cattive lo hanno strappato ai suoi genitori ma che finalmente torna a casa». Tutti gli israeliani, che abbiano tre o cento anni, si sono messi stamane davanti alla televisione o alla radio, a seguire le immagini di questo giovane caporale. Improvvisamente, Gilad Shalit è diventato parte delle nostre famiglie. Tutto Israele ha chiesto che venisse liberato.
Le prime immagini che abbiamo visto sono quelle di un ragazzo molto pallido e molto magro, quasi abbagliato dalla luce, avvolto in una divisa paramilitare. Due persone lo sostengono, come se non riuscisse a reggersi in piedi da solo. Una giornalista egiziana lo intervista, quasi fosse un interrogatorio. Lui risponde in ebraico e le sue risposte sono immediatamente tradotte in arabo. Tra una risposta e l'altra respira a fondo, come se fosse vittima di un'enorme tempesta emotiva interna. Gli chiedono quali sono i suoi piani per il futuro. «Sogno il momento in cui rivedrò i miei genitori». «Ho temuto di non tornare mai». «Spero che questo scambio sia un passo avanti per la pace», risponde. E sorride. Sono i primi sorrisi da quando è stato rilasciato. Ora sembra meno fragile. Gli chiedono se vuole aggiungere qualcosa, ma lui è finalmente un uomo libero: non vuole più rispondere, si alza e se ne va. Il commentatore israeliano dice che per un ragazzo che è stato per cinque anni tagliato fuori dal mondo non sembra così perso come si temeva. Alla televisione un ex prigioniero delle carceri siriane spiega il modo di muoversi di Gilad. Si muove come se fosse seduto su una sedia a dondolo, e questo è tipico di chi è stato a lungo in carcere e si trova in una situazione emotiva difficile.
Shalit ha da fare: deve tornare in Israele. Lo attendono le visite dei medici e poi il primo ministro. Solo allora, finalmente, potrà riabbracciare i suoi genitori. Ma questo incontro rimarrà segreto. Tutti noi credevamo di conoscerlo, dopo aver visto la sua immagine stampata ovunque, ma ci sbagliavamo. È molto più forte di quanto ci aspettassimo. Credevamo di veder tornare a casa un ragazzino distrutto. E invece il ragazzino è tornato a casa giovane uomo, coerente, lungi dall'essere distrutto dopo ben cinque anni e mezzo di isolamento.
sabato 15 ottobre 2011
un mio articolo per gq
http://www.gqitalia.it/viral-news/articles/2011/10/gilad-shalit-sara-liberato-scambio-di-prigionieri-israele-hamas-manuela-dviri-per-gq
Il ritorno a casa di Gilad Shalit. E quella promessa fatta a ogni ebreo: un intero popolo è pronto a lottare per te
12 ott 2011 — Manuela Dviri
Gilad Shalit, il soldato israeliano da 5 anni e 4 mesi nelle mani di Hamas, tornerà a casa presto: Israele ha acconsentito a uno scambio con 1027 prigionieri. Un prezzo troppo alto? No, spiega l'editorialista di GQ Manuela Dviri. Perché "Israel arevim ze ba ze": ogni ebreo è responsabile per tutto il resto del popolo. Ed è pronto a ogni sacrificio per salvare un altro ebreo
--------------------------------------------------------------------------------
Era sera quando improvvisamente sono state interrotte tutte le trasmissioni radiofoniche e televisive. Per un attimo ho avuto paura. Di solito succede per gli attentati o per le guerre. Invece è stata solennemente e gioiosamente annunciata la prossima liberazione, anzi, "il ritorno a casa", del giovane soldato Gilad Shalit, prigioniero a Gaza in totale isolamento per ben cinque anni e quattro mesi, in cambio di 1027 prigionieri palestinesi. Mi sono commossa.
E lo spazio si è riempito subito di parole, come sempre succede in questi casi, perché adesso e non prima, qual è il prezzo da pagare, se non la pagheremo cara in futuro...
Eppure, incredibilmente, nell'opinione pubblica c'è pochissima opposizione allo scambio: 1.000 prigionieri palestinesi per un solo soldato non sembrano affatto un prezzo troppo alto da pagare.
La risposta forse la si può trovare in un concetto del tutto ebraico: "Israel arevim ze ba ze", cioè ogni ebreo è responsabile dell'altro, è garante dell'altro. O, meglio, ogni ebreo è responsabile di tutto il resto del popolo. In questo caso vuol anche dire che ogni soldato che parte per combattere deve sapere che un intero popolo lotterà per lui, se mai ce ne sarà bisogno.
Adesso non resta che attendere il ritorno di Gilad, tra qualche giorno.
Una delle condizioni dello scambio era che Gilad stesse relativamente bene. E questa è la tacita domanda che leggi negli occhi dei genitori, nei loro visi per la prima volta sorridenti e poi subito di nuovo contratti. Sognano, lo capisci, una vita normale. Del tutto anonima, tranquilla: nella guerra di Kippur, esattamente 38 anni fa, Noam Shalit, il padre di Gilad, aveva perso un fratello gemello, Yoel.
Penso che se potesse , urlerebbe "adesso basta"
Il ritorno a casa di Gilad Shalit. E quella promessa fatta a ogni ebreo: un intero popolo è pronto a lottare per te
12 ott 2011 — Manuela Dviri
Gilad Shalit, il soldato israeliano da 5 anni e 4 mesi nelle mani di Hamas, tornerà a casa presto: Israele ha acconsentito a uno scambio con 1027 prigionieri. Un prezzo troppo alto? No, spiega l'editorialista di GQ Manuela Dviri. Perché "Israel arevim ze ba ze": ogni ebreo è responsabile per tutto il resto del popolo. Ed è pronto a ogni sacrificio per salvare un altro ebreo
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Era sera quando improvvisamente sono state interrotte tutte le trasmissioni radiofoniche e televisive. Per un attimo ho avuto paura. Di solito succede per gli attentati o per le guerre. Invece è stata solennemente e gioiosamente annunciata la prossima liberazione, anzi, "il ritorno a casa", del giovane soldato Gilad Shalit, prigioniero a Gaza in totale isolamento per ben cinque anni e quattro mesi, in cambio di 1027 prigionieri palestinesi. Mi sono commossa.
E lo spazio si è riempito subito di parole, come sempre succede in questi casi, perché adesso e non prima, qual è il prezzo da pagare, se non la pagheremo cara in futuro...
Eppure, incredibilmente, nell'opinione pubblica c'è pochissima opposizione allo scambio: 1.000 prigionieri palestinesi per un solo soldato non sembrano affatto un prezzo troppo alto da pagare.
La risposta forse la si può trovare in un concetto del tutto ebraico: "Israel arevim ze ba ze", cioè ogni ebreo è responsabile dell'altro, è garante dell'altro. O, meglio, ogni ebreo è responsabile di tutto il resto del popolo. In questo caso vuol anche dire che ogni soldato che parte per combattere deve sapere che un intero popolo lotterà per lui, se mai ce ne sarà bisogno.
Adesso non resta che attendere il ritorno di Gilad, tra qualche giorno.
Una delle condizioni dello scambio era che Gilad stesse relativamente bene. E questa è la tacita domanda che leggi negli occhi dei genitori, nei loro visi per la prima volta sorridenti e poi subito di nuovo contratti. Sognano, lo capisci, una vita normale. Del tutto anonima, tranquilla: nella guerra di Kippur, esattamente 38 anni fa, Noam Shalit, il padre di Gilad, aveva perso un fratello gemello, Yoel.
Penso che se potesse , urlerebbe "adesso basta"
venerdì 14 ottobre 2011
da haaretz, un articolo importante
da haaretz di luglio
Israele sta attraversando una crisi di fiducia rispetto al suo futuro; lo stato ebraico si dibatte tra due realtà contrastanti: da un lato il tentativo di dar vita ad una società morale, democratica e creativa; dall’altro la prosecuzione di politiche inique nei confronti dei palestinesi, come l’esproprio delle loro terre, la costruzione del muro di separazione, le centinaia di posti di blocco disseminati in Cisgiordania. Tutto ciò determina un diffuso senso di colpa all’interno della società israeliana – sostiene il filosofo e psicanalista israeliano Carlo Strenger
L’analisi che proponiamo di seguito fa parte di un insieme di articoli che pubblicheremo nel tentativo di dare una panoramica del dibattito riguardante il futuro del conflitto israelo-palestinese
In occasione del convegno annuale sullo ‘stato della nazione’ organizzato dall’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale, M.K. Avishay Braverman (membro del partito laburista (N.d.T.) ) ha lamentato che Israele sta andando in pezzi. Il nostro sistema educativo, di cui un tempo in Israele s’andava fieri, è allo sfascio; la corruzione nella pubblica amministrazione è alle stelle; le nostre università stanno morendo di fame; e il debito pubblico è drammatico quasi quanto quello del Brasile.
Le lamentele di Braverman riflettono un disagio generalizzato che pervade lo stato d’animo della popolazione israeliana. Per la prima volta nella storia di Israele lo scetticismo riguardo alle sue possibilità di sopravvivenza, le preoccupazioni sul suo sistema di norme statali, e l’interrogativo se esisterà ancora fra 50 anni, serpeggiano nella società e nei media. Ciò è strano, se si pensa che in passato Israele è stato in situazioni di pericolo esterno ben più gravi, e che oggi le sue risorse economiche e militari sono meglio sviluppate che mai.
Allora perché Israele è incapace di affrontare i suoi problemi sociali? Perché gli scandali per corruzione, lo stato penoso del nostro sistema educativo, o lo stallo della nostra situazione geopolitica, non portano la gente in piazza? Dopo Sabra e Chatila l’opinione pubblica israeliana era eccitata: centinaia di migliaia di persone si mobilitarono per dimostrare in quella piazza dove 13 anni più tardi Yitzhak Rabin sarebbe stato assassinato. La Commissione Kahan, nominata a seguito delle pressioni della protesta popolare, stabilì che Ariel Sharon non era adatto a svolgere il ruolo di ministro della difesa in futuro.
In passato Israele era certo della sua moralità. Il sentimento attuale che la società israeliana stia andando in pezzi riflette invece qualcosa di essenzialmente inedito: Israele non è più certo dei suoi fondamenti morali. Tale paralisi riflette un diffuso senso di colpa riguardo al comportamento attuale di Israele. Da un lato Israele sta facendo un grosso sforzo per dar vita a una società morale, democratica e creativa; dall’altro, nei Territori occupati Israele continua a costruire doppi sistemi stradali, a espropriare le terre palestinesi, a tagliare in due i villaggi palestinesi con il muro di sicurezza, a impedire alle donne palestinesi di raggiungere gli ospedali per partorire. Sotto questo aspetto, la psiche collettiva di Israele ricorda quella di una personalità scissa in situazione post-traumatica. Gli uomini che hanno subito un trauma, in genere legato al servizio militare, spesso sono capaci di mantenere una apparenza di rispettabilità durante il giorno, per poi dare sfogo a scoppi di violenza apparentemente inspiegabili quando ritornano a casa la sera.
La psiche collettiva di Israele funziona in modo similare: a partire dal 1948 poco dopo l’Olocausto, fino al 1967, l’esistenza di Israele fu realmente in pericolo. Il Paese dipendeva soltanto dal suo valore in battaglia, mentre disponeva solo di pochi alleati fedeli. Proprio come se non ci fossimo mai affrancati dal passato, continuiamo ad agire come se Israele fosse ancora un piccolo e isolato ‘Yishuv’ (letteralmente ‘insediamento’; con tale termine si indicano gli ebrei che risiedevano in Palestina prima della creazione dello stato di Israele (N.d.T.) ) minacciato di estinzione immediata, e come se ogni nostra azione fosse giustificata dalla necessità di salvaci la vita. Israele, come società e come paese, accetta e rispetta il principio morale dei diritti umani universali. Dentro di noi, sappiamo bene che è moralmente indifendibile il fatto che causiamo sofferenze a milioni di palestinesi in Cisgiordania per mezzo degli insediamenti costruiti in profondità nei Territori. Eppure lasciamo questo che accada. Badiamo alla nostra convenienza e tentiamo di tacitare la nostra coscienza dicendo: “Non c’è un interlocutore”, o “I posti di blocco sono necessari per impedire gli attacchi terroristici”, o ancora “Guardate che cos’è accaduto quando abbiamo lasciato Gaza! Ce ne siamo andati, e tutto ciò che abbiamo ottenuto sono gli attacchi dei razzi Qassam!”
Mentre l’ultima affermazione ha una qualche validità, tutti i sondaggi evidenziano che la maggior parte degli israeliani crede che gli insediamenti all’interno della Cisgiordania mettano a repentaglio la sicurezza di Israele invece di accrescerla; e anche gli esperti militari sono di questo parere. E questi insediamenti sono la ragione principale che è alla base della stragrande maggioranza dei posti di blocco e degli espropri che rendono la vita impossibile ai palestinesi, e che hanno portato quasi tutti i palestinesi a ritenere che Israele, in realtà, non desideri la pace.
C’è solo un modo per porre fine al disagio generalizzato e spazzar via il timore che Israele sia costruito sulle sabbie mobili. È rimettere in sesto la spina dorsale di moralità che è stata danneggiata dalla scissione della psiche israeliana tra una metà rispettabile che crede nella democrazia e nei diritti umani, e l’altra metà che insensibilmente e automaticamente continua a violare tutte le norme in cui tutti noi crediamo. Dobbiamo assolutamente recuperare la capacità di fare un sincero esame di coscienza per ritornare a essere responsabili delle nostre azioni.
Io prevedo che la paralisi terminerà nel momento in cui Israele troverà la volontà politica di dire ai coloni: “noi comprendiamo il vostro dolore e la vostra rabbia, ma abbiamo fatto un terribile errore inviandovi nei Territori. La sopravvivenza morale e politica di Israele dipende dal vostro ritorno a casa”.
Solo quando ci sveglieremo al mattino con la consapevolezza che non ci sono più orrori indifendibili da mettere a tacere, non più giovani soldati inviati a compiere un incarico che li segnerà per tutta la vita, e non più donne palestinesi che perdono i loro bambini solo perché non riescono a giungere in tempo all’ospedale, noi saremo capaci di superare gli enormi problemi interni alla nostra società.
La psiche israeliana ha bisogno di essere liberata dal fardello insostenibile della colpa, se veramente vogliamo ritrovare la nostra capacità di superare le avversità, e la convinzione che abbiamo il diritto di vivere in questa terra. Solo allora sarà liberata anche la creatività e l’intraprendenza che riconosciamo nella gestione degli affari di Israele, nella ricerca e nello sviluppo, nel fiorire della scena artistica, al fine di creare quella società che tutti noi desideriamo.
Carlo Strenger, filosofo e psicanalista, insegna presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Tel Aviv; è membro del comitato permanente di monitoraggio sul terrorismo della World Federation of Scientists
Israele sta attraversando una crisi di fiducia rispetto al suo futuro; lo stato ebraico si dibatte tra due realtà contrastanti: da un lato il tentativo di dar vita ad una società morale, democratica e creativa; dall’altro la prosecuzione di politiche inique nei confronti dei palestinesi, come l’esproprio delle loro terre, la costruzione del muro di separazione, le centinaia di posti di blocco disseminati in Cisgiordania. Tutto ciò determina un diffuso senso di colpa all’interno della società israeliana – sostiene il filosofo e psicanalista israeliano Carlo Strenger
L’analisi che proponiamo di seguito fa parte di un insieme di articoli che pubblicheremo nel tentativo di dare una panoramica del dibattito riguardante il futuro del conflitto israelo-palestinese
In occasione del convegno annuale sullo ‘stato della nazione’ organizzato dall’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale, M.K. Avishay Braverman (membro del partito laburista (N.d.T.) ) ha lamentato che Israele sta andando in pezzi. Il nostro sistema educativo, di cui un tempo in Israele s’andava fieri, è allo sfascio; la corruzione nella pubblica amministrazione è alle stelle; le nostre università stanno morendo di fame; e il debito pubblico è drammatico quasi quanto quello del Brasile.
Le lamentele di Braverman riflettono un disagio generalizzato che pervade lo stato d’animo della popolazione israeliana. Per la prima volta nella storia di Israele lo scetticismo riguardo alle sue possibilità di sopravvivenza, le preoccupazioni sul suo sistema di norme statali, e l’interrogativo se esisterà ancora fra 50 anni, serpeggiano nella società e nei media. Ciò è strano, se si pensa che in passato Israele è stato in situazioni di pericolo esterno ben più gravi, e che oggi le sue risorse economiche e militari sono meglio sviluppate che mai.
Allora perché Israele è incapace di affrontare i suoi problemi sociali? Perché gli scandali per corruzione, lo stato penoso del nostro sistema educativo, o lo stallo della nostra situazione geopolitica, non portano la gente in piazza? Dopo Sabra e Chatila l’opinione pubblica israeliana era eccitata: centinaia di migliaia di persone si mobilitarono per dimostrare in quella piazza dove 13 anni più tardi Yitzhak Rabin sarebbe stato assassinato. La Commissione Kahan, nominata a seguito delle pressioni della protesta popolare, stabilì che Ariel Sharon non era adatto a svolgere il ruolo di ministro della difesa in futuro.
In passato Israele era certo della sua moralità. Il sentimento attuale che la società israeliana stia andando in pezzi riflette invece qualcosa di essenzialmente inedito: Israele non è più certo dei suoi fondamenti morali. Tale paralisi riflette un diffuso senso di colpa riguardo al comportamento attuale di Israele. Da un lato Israele sta facendo un grosso sforzo per dar vita a una società morale, democratica e creativa; dall’altro, nei Territori occupati Israele continua a costruire doppi sistemi stradali, a espropriare le terre palestinesi, a tagliare in due i villaggi palestinesi con il muro di sicurezza, a impedire alle donne palestinesi di raggiungere gli ospedali per partorire. Sotto questo aspetto, la psiche collettiva di Israele ricorda quella di una personalità scissa in situazione post-traumatica. Gli uomini che hanno subito un trauma, in genere legato al servizio militare, spesso sono capaci di mantenere una apparenza di rispettabilità durante il giorno, per poi dare sfogo a scoppi di violenza apparentemente inspiegabili quando ritornano a casa la sera.
La psiche collettiva di Israele funziona in modo similare: a partire dal 1948 poco dopo l’Olocausto, fino al 1967, l’esistenza di Israele fu realmente in pericolo. Il Paese dipendeva soltanto dal suo valore in battaglia, mentre disponeva solo di pochi alleati fedeli. Proprio come se non ci fossimo mai affrancati dal passato, continuiamo ad agire come se Israele fosse ancora un piccolo e isolato ‘Yishuv’ (letteralmente ‘insediamento’; con tale termine si indicano gli ebrei che risiedevano in Palestina prima della creazione dello stato di Israele (N.d.T.) ) minacciato di estinzione immediata, e come se ogni nostra azione fosse giustificata dalla necessità di salvaci la vita. Israele, come società e come paese, accetta e rispetta il principio morale dei diritti umani universali. Dentro di noi, sappiamo bene che è moralmente indifendibile il fatto che causiamo sofferenze a milioni di palestinesi in Cisgiordania per mezzo degli insediamenti costruiti in profondità nei Territori. Eppure lasciamo questo che accada. Badiamo alla nostra convenienza e tentiamo di tacitare la nostra coscienza dicendo: “Non c’è un interlocutore”, o “I posti di blocco sono necessari per impedire gli attacchi terroristici”, o ancora “Guardate che cos’è accaduto quando abbiamo lasciato Gaza! Ce ne siamo andati, e tutto ciò che abbiamo ottenuto sono gli attacchi dei razzi Qassam!”
Mentre l’ultima affermazione ha una qualche validità, tutti i sondaggi evidenziano che la maggior parte degli israeliani crede che gli insediamenti all’interno della Cisgiordania mettano a repentaglio la sicurezza di Israele invece di accrescerla; e anche gli esperti militari sono di questo parere. E questi insediamenti sono la ragione principale che è alla base della stragrande maggioranza dei posti di blocco e degli espropri che rendono la vita impossibile ai palestinesi, e che hanno portato quasi tutti i palestinesi a ritenere che Israele, in realtà, non desideri la pace.
C’è solo un modo per porre fine al disagio generalizzato e spazzar via il timore che Israele sia costruito sulle sabbie mobili. È rimettere in sesto la spina dorsale di moralità che è stata danneggiata dalla scissione della psiche israeliana tra una metà rispettabile che crede nella democrazia e nei diritti umani, e l’altra metà che insensibilmente e automaticamente continua a violare tutte le norme in cui tutti noi crediamo. Dobbiamo assolutamente recuperare la capacità di fare un sincero esame di coscienza per ritornare a essere responsabili delle nostre azioni.
Io prevedo che la paralisi terminerà nel momento in cui Israele troverà la volontà politica di dire ai coloni: “noi comprendiamo il vostro dolore e la vostra rabbia, ma abbiamo fatto un terribile errore inviandovi nei Territori. La sopravvivenza morale e politica di Israele dipende dal vostro ritorno a casa”.
Solo quando ci sveglieremo al mattino con la consapevolezza che non ci sono più orrori indifendibili da mettere a tacere, non più giovani soldati inviati a compiere un incarico che li segnerà per tutta la vita, e non più donne palestinesi che perdono i loro bambini solo perché non riescono a giungere in tempo all’ospedale, noi saremo capaci di superare gli enormi problemi interni alla nostra società.
La psiche israeliana ha bisogno di essere liberata dal fardello insostenibile della colpa, se veramente vogliamo ritrovare la nostra capacità di superare le avversità, e la convinzione che abbiamo il diritto di vivere in questa terra. Solo allora sarà liberata anche la creatività e l’intraprendenza che riconosciamo nella gestione degli affari di Israele, nella ricerca e nello sviluppo, nel fiorire della scena artistica, al fine di creare quella società che tutti noi desideriamo.
Carlo Strenger, filosofo e psicanalista, insegna presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Tel Aviv; è membro del comitato permanente di monitoraggio sul terrorismo della World Federation of Scientists
martedì 11 ottobre 2011
gilad shalit
da ieri, il giorno in cui è stato annunciato il ritorno del soldato ghilad shanit, dopo cinque anni di prigionia in totale isolamento ,senza essere mai stato visto da nessuno , neanche dalla croce rossa, e in cambio di 1027 prigionieri palestinesi , sento il bisogno di un pò di silenzio.
da ieri, da quando hanno improvvisamente interrotto le trasmissioni radiofoniche e televisive per annunciarlo , l'aria si è riempita di parole, parole inutili , parole a vuoto, parole per riempire il vuoto. e continuano a parlare parlare parlare.
tra una settimana ci sarà o poco più il suo ritorno a casa.
una delle condizioni dello scambio era che stesse relativamente bene.
speriamo che in effetti sia così.
da ieri, da quando hanno improvvisamente interrotto le trasmissioni radiofoniche e televisive per annunciarlo , l'aria si è riempita di parole, parole inutili , parole a vuoto, parole per riempire il vuoto. e continuano a parlare parlare parlare.
tra una settimana ci sarà o poco più il suo ritorno a casa.
una delle condizioni dello scambio era che stesse relativamente bene.
speriamo che in effetti sia così.
lunedì 10 ottobre 2011
bella notizia
e a proposito di a cosa serve l'internet
(ANSA) - GAZA, 10 OTT - Desta grande compiacimento fra i
blogger indipendenti di Gaza il premio giornalistico giunto in
questi giorni dalla Fondazione Anna Lindh alla loro collega Asma
al-Ghoul (30), che da anni porta avanti una campagna per la
liberta' di espressione malgrado le limitazioni imposte da
Hamas.
Asma - una donna divorziata, madre di un figlio di sei anni -
fa sentire la sua voce sia mediante un blog molto seguito
(AsmaGaza) che con interventi su svariati mezzi di comunicazione
fra cui il giornale palestinese al-Ayam e il giornale arabo
internazionale al-Hayat.
Fra i suoi compagni di Gaza (che alcuni mesi fa hanno
pubblicato un coraggioso manifesto per la liberta' di
espressione), Asma ha fama di donna tenace, malgrado in passato
abbia subito percosse e minacce da parte dei servizi di
sicurezza di Hamas e sia stata ripetutamente fermata.
Insofferente delle pressioni sociali, Asma mantiene inoltre
la abitudine di indossare abbigliamenti di stile occidentale:
cosa che, secondo i suoi compagni, le attira continui rimproveri
da parte di agenti di polizia e dei passanti.
Il premio Anna Lindh e' stato conferito quest'anno a sei
giornalisti, fra cui un altro esponente della 'primavera araba':
lo scrittore egiziano Mohammed al-Dahshan. (ANSA).
(ANSA) - GAZA, 10 OTT - Desta grande compiacimento fra i
blogger indipendenti di Gaza il premio giornalistico giunto in
questi giorni dalla Fondazione Anna Lindh alla loro collega Asma
al-Ghoul (30), che da anni porta avanti una campagna per la
liberta' di espressione malgrado le limitazioni imposte da
Hamas.
Asma - una donna divorziata, madre di un figlio di sei anni -
fa sentire la sua voce sia mediante un blog molto seguito
(AsmaGaza) che con interventi su svariati mezzi di comunicazione
fra cui il giornale palestinese al-Ayam e il giornale arabo
internazionale al-Hayat.
Fra i suoi compagni di Gaza (che alcuni mesi fa hanno
pubblicato un coraggioso manifesto per la liberta' di
espressione), Asma ha fama di donna tenace, malgrado in passato
abbia subito percosse e minacce da parte dei servizi di
sicurezza di Hamas e sia stata ripetutamente fermata.
Insofferente delle pressioni sociali, Asma mantiene inoltre
la abitudine di indossare abbigliamenti di stile occidentale:
cosa che, secondo i suoi compagni, le attira continui rimproveri
da parte di agenti di polizia e dei passanti.
Il premio Anna Lindh e' stato conferito quest'anno a sei
giornalisti, fra cui un altro esponente della 'primavera araba':
lo scrittore egiziano Mohammed al-Dahshan. (ANSA).
40 gradi all'ombra e legge bavaglio
caldo caldo caldo, quanto fa caldo.
e che sole e che mare.
sabato è stato il giorno di kippur che sempre mi stupisce ed incanta per il silenzio assoluto e la totale assenza di macchine. ed è una assenza volontaria, non c'è legge che obblighi questo popolo bizzarro disordinato e indisciplinato a tenere tutti i negozi chiusi e a non spostare la macchina.
eppure.
ieri invece mi hanno chiamata dalla tivù israeliana per spiegare cos'è la la italica legge bavaglio .
me la son studiata per bene , ma ha degli aspetti un pò strani e persino misteriosi , come se chi l'avesse scritta non capisse granchè di come funziona l'internet .
o mi sbaglio????
e che sole e che mare.
sabato è stato il giorno di kippur che sempre mi stupisce ed incanta per il silenzio assoluto e la totale assenza di macchine. ed è una assenza volontaria, non c'è legge che obblighi questo popolo bizzarro disordinato e indisciplinato a tenere tutti i negozi chiusi e a non spostare la macchina.
eppure.
ieri invece mi hanno chiamata dalla tivù israeliana per spiegare cos'è la la italica legge bavaglio .
me la son studiata per bene , ma ha degli aspetti un pò strani e persino misteriosi , come se chi l'avesse scritta non capisse granchè di come funziona l'internet .
o mi sbaglio????
mercoledì 5 ottobre 2011
un articolo di tobia zevi
Secondo una recente indagine di J-street lo Stato d’Israele è al settimo posto tra le preoccupazioni degli ebrei americani; il rapporto curato dalla nostra associazione, “Cittadini del mondo, un po’ preoccupati” (a cura di Saul Meghnagi, Giuntina) descrive un quadro simile tra i giovani ebrei italiani: il rapporto con Israele è certamente molto stretto, ma sul piano delle prospettive i giovani sembrano avere altre priorità. La settimana scorsa Gadi Luzzatto Voghera ha ribadito un concetto che abbiamo spesso sostenuto su queste colonne: l’argomento “Israele” viene usato da molti leader ebrei per conquistare un consenso all’interno delle comunità, con la conseguenza negativa di dividere in fazioni contrapposte. Certo, non tutti gli ebrei la pensano allo stesso modo sulle scelte politiche d’Israele, e del resto sarebbe strano se ci fosse una Diaspora monolitica di fronte alla grande varietà di posizioni della società israeliana. Tutti gli ebrei sono legatissimi allo stato d’Israele e temono per la sua sopravvivenza; al tempo stesso divergono su quali siano le misure più utili a garantirne la sicurezza. Sbaglia chi demonizza o insulta chi la pensa diversamente, non solo perché si mostra incivile ma soprattutto perché quest’atteggiamento non è utile.
Come spesso ripetono i nostri rabbini, sono altri i problemi veri delle nostre comunità, e l’esito del conflitto mediorientale non dipende in alcun modo da noi. Alla vigilia di Kippur la mia proposta è questa: per ogni discussione o articolo su Israele, ognuno di noi si impegna a prendere una lezione di ebraico. Così, tanto per sapere di che cosa stiamo parlando e sprecare un po’ meno fiato.
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas
Come spesso ripetono i nostri rabbini, sono altri i problemi veri delle nostre comunità, e l’esito del conflitto mediorientale non dipende in alcun modo da noi. Alla vigilia di Kippur la mia proposta è questa: per ogni discussione o articolo su Israele, ognuno di noi si impegna a prendere una lezione di ebraico. Così, tanto per sapere di che cosa stiamo parlando e sprecare un po’ meno fiato.
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas
martedì 4 ottobre 2011
l'incendio della moschea
E’ cominciato tutto una decina di giorni fa nei pressi di Kiryat Arba, quando Asher Palmer, 25 anni, è stato ucciso mentre viaggiava in auto con il figlio Yehonathan di 1 anno. La polizia, dopo aver analizzato la dinamica dell’incidente, ha concluso che l’incidente è stato causato dalle numerose pietre lanciate contro l’auto in corsa. Non solo, ma che quelle pietre erano state lanciate con il chiaro intento di uccidere. Insomma, per la polizia si è trattato di un chiaro attacco di tipo terroristico.
Due giorni fa, la morte di Asher Palmer e di suo figlio è stata vendicata. Coloni israeliani del nord della Galilea hanno dato alle fiamme la moschea del villaggio di Tuba Zanghaiyya, nei pressi dell’insediamento israeliano di Rosha Pina.
E’ la prima volta che un episodio simile di verifica in territorio israeliano, e la preoccupazione, a tutti i livelli, è molto alta; l’effetto-domino per molti è dietro la porta. La preoccupazione è alta a tutti i livelli, non a caso il presidente Shimon Peres, subito dopo la notizia dell’incendio, si è recato nel villaggio di Tuba-Zanghaiyya a visitare la moschea.
Sui muri, la firma inconfondibile degli autori,” Il prezzo da pagare”, è stata immediatamente cancellata dalla polizia israeliana. Una mano di vernice tuttavia non può cancellare la rabbia e il desiderio di vendetta per lo sfregio subito. Già ieri infatti, si sono verificati violenti scontri fra la polizia israeliana e centinaia di giovani abitanti del villaggio di Tuba-Zanghaiyya decisi a dirigersi a Rosha Pina. Le forze di polizia hanno cercato di fermare i manifestanti, e al lancio di sassi e pietre si sono alternate alcune raffiche di mitra.
Un ufficiale della polizia israeliana parlando sotto stretto anonimato con il giornalista de “Il fatto”, ha espresso preoccupazione per il pericolo di escalation della violenza fra coloni e beduini israeliani: “Se diamo la possibilità a questi estremisti messianici ebrei di provocare gli arabi beduini e palestinesi che risiedono qui in Israele, la tensione tra i vari gruppi etnici potrebbe esplodere violentemente e mettere in pericolo la sicurezza di tutta Israele”.
da"mosaico"
Due giorni fa, la morte di Asher Palmer e di suo figlio è stata vendicata. Coloni israeliani del nord della Galilea hanno dato alle fiamme la moschea del villaggio di Tuba Zanghaiyya, nei pressi dell’insediamento israeliano di Rosha Pina.
E’ la prima volta che un episodio simile di verifica in territorio israeliano, e la preoccupazione, a tutti i livelli, è molto alta; l’effetto-domino per molti è dietro la porta. La preoccupazione è alta a tutti i livelli, non a caso il presidente Shimon Peres, subito dopo la notizia dell’incendio, si è recato nel villaggio di Tuba-Zanghaiyya a visitare la moschea.
Sui muri, la firma inconfondibile degli autori,” Il prezzo da pagare”, è stata immediatamente cancellata dalla polizia israeliana. Una mano di vernice tuttavia non può cancellare la rabbia e il desiderio di vendetta per lo sfregio subito. Già ieri infatti, si sono verificati violenti scontri fra la polizia israeliana e centinaia di giovani abitanti del villaggio di Tuba-Zanghaiyya decisi a dirigersi a Rosha Pina. Le forze di polizia hanno cercato di fermare i manifestanti, e al lancio di sassi e pietre si sono alternate alcune raffiche di mitra.
Un ufficiale della polizia israeliana parlando sotto stretto anonimato con il giornalista de “Il fatto”, ha espresso preoccupazione per il pericolo di escalation della violenza fra coloni e beduini israeliani: “Se diamo la possibilità a questi estremisti messianici ebrei di provocare gli arabi beduini e palestinesi che risiedono qui in Israele, la tensione tra i vari gruppi etnici potrebbe esplodere violentemente e mettere in pericolo la sicurezza di tutta Israele”.
da"mosaico"
ebreo senza religione
Ebreo, ma senza religione. O meglio ancora, ebreo, israeliano e senza nessuna religione.
Yoram Kaniuk, classe 1920, veterano della guerra del 1948, scrittore sionista, autore di 30 libri tradotti in tutto il mondo, è stato riconosciuto ufficialmente come “senza religione”. E questa nuova identità è frutto di una battaglia che ha avuto un esito di portata indiscutibilmente storica per lo Stato di Israele.
Gideon Ginat, giudice del Tribunale di Tel Aviv, ha infatti accolto la richiesta dello scrittore di essere iscritto nel Registro della Popolazione come “senza religione”.
“La libertà dalla religione è una libertà che deriva dal diritto alla dignità dell’uomo e tale libertà è tutelata dalla Legge Fondamentale sulla Dignità umana e la Libertà dello Stato di Israele” ha osservato il giudice.
“Con questa decisione viene garantita a tutti la libertà di vivere secondo la propria coscienza. Dignità umana e libertà significano possibilità per ogni individuo di auto-determinare la propria identità e definizione. In questo modo io posso essere senza religione ma ebreo per nazionalità. Sono molto emozionato”, ha dichiarato Kaniuk al quotidiano Haaretz.
Lo scorso maggio, Kaniuk aveva fatto richiesta al Ministero degli Interni di “liberarsi” dalla religione ebraica cambiando il proprio status religioso da “ebreo” a “senza religione”. Allora il Ministero rifiutò la richiesta.
Nella domanda al Ministero, Kaniuk spiegava che non intendeva far parte di un “Iran ebraico” né appartenere a quella che oggi viene definita la “religione di Israele”.
L’insofferenza di Kaniuk – e la conseguente domanda di modifica del proprio status religioso – è nata, ha detto, “dal crescente disgusto per il modo in cui il mondo religioso rifiuta i principi inscritti nella dichiarazione di Indipendenza di Israele”.
Al di là dei motivi di Kaniuk, sarà interessante vedere se e come si svilupperà il dibattito in Israele e altrove su questa storica decisione. Soprattutto se e come potrà costituire un precedente.
( da Mosaico)
Yoram Kaniuk, classe 1920, veterano della guerra del 1948, scrittore sionista, autore di 30 libri tradotti in tutto il mondo, è stato riconosciuto ufficialmente come “senza religione”. E questa nuova identità è frutto di una battaglia che ha avuto un esito di portata indiscutibilmente storica per lo Stato di Israele.
Gideon Ginat, giudice del Tribunale di Tel Aviv, ha infatti accolto la richiesta dello scrittore di essere iscritto nel Registro della Popolazione come “senza religione”.
“La libertà dalla religione è una libertà che deriva dal diritto alla dignità dell’uomo e tale libertà è tutelata dalla Legge Fondamentale sulla Dignità umana e la Libertà dello Stato di Israele” ha osservato il giudice.
“Con questa decisione viene garantita a tutti la libertà di vivere secondo la propria coscienza. Dignità umana e libertà significano possibilità per ogni individuo di auto-determinare la propria identità e definizione. In questo modo io posso essere senza religione ma ebreo per nazionalità. Sono molto emozionato”, ha dichiarato Kaniuk al quotidiano Haaretz.
Lo scorso maggio, Kaniuk aveva fatto richiesta al Ministero degli Interni di “liberarsi” dalla religione ebraica cambiando il proprio status religioso da “ebreo” a “senza religione”. Allora il Ministero rifiutò la richiesta.
Nella domanda al Ministero, Kaniuk spiegava che non intendeva far parte di un “Iran ebraico” né appartenere a quella che oggi viene definita la “religione di Israele”.
L’insofferenza di Kaniuk – e la conseguente domanda di modifica del proprio status religioso – è nata, ha detto, “dal crescente disgusto per il modo in cui il mondo religioso rifiuta i principi inscritti nella dichiarazione di Indipendenza di Israele”.
Al di là dei motivi di Kaniuk, sarà interessante vedere se e come si svilupperà il dibattito in Israele e altrove su questa storica decisione. Soprattutto se e come potrà costituire un precedente.
( da Mosaico)
domenica 2 ottobre 2011
era...
avvolto in un taled, lo scialle rituale, un minuscolo fagottino.l'hanno sepolto e coperto di terra a palate.
quanti discorsi, quante parole. quante cretinate diceva la gente.
io avrei preferito il silenzio.
tanto cosa c'è da dire?
aveva nove mesi.
quanti discorsi, quante parole. quante cretinate diceva la gente.
io avrei preferito il silenzio.
tanto cosa c'è da dire?
aveva nove mesi.
primo giorno dell'anno
e sto amdando al funerale di un bambino morto di distrofia muscolare a otto forse nove mesi.
è il nipotino dei miei cognati.
non so mai stata al funerale di un neonato . quindici giorni fa l'avevo visto e non riusciva più neanche a piangere.
è il nipotino dei miei cognati.
non so mai stata al funerale di un neonato . quindici giorni fa l'avevo visto e non riusciva più neanche a piangere.
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