per chi non l'abbia letto o sentito copio qui una parte del discorso al senato del sig Ciarrapico ( da Repubblica)
ROMA - «I 35 parlamentari finiani non sarebbero mai stati eletti se non li avesse fatti eleggere lei signor presidente» e «torneranno nell'ombra. Come nell'ombra tornerà la terza carica dello Stato che Ella, molto generosamente, gli aveva affidato». Così il senatore del Pdl, Giuseppe Ciarrapico, nel suo intervento al Senato dopo il discorso del presidente del Consiglio. «Fini ha fatto sapere che presto fonderà un nuovo partito. Spero che abbia già ordinato le kippah, ha aggiunto Ciarrapico, riferendosi al copricapo maschile usato dagli ebrei osservanti- perché è di questo che si tratta. Chi ha tradito una volta, tradisce sempre. Può darsi pure che Fini svolga una missione ma è una missione tutta sua personale. Se la tenga. Quando andremo a votare vedremo quanti voti prenderà il transfuga Fini».
Sono la moglie di un portatore di kippà e madre di portatori di kippà e questi sono i momenti che mi ricordo perchè vivo in Israele.
giovedì 30 settembre 2010
martedì 28 settembre 2010
rieccomi qua, come nuova
... a fare la babysitter delle gemelle .
ieri abbiamo passato la giornata al mar morto (40 gradi abbondanti all'ombra) ma quel mare è una meraviglia per tutti i mali del mondo e oggi invece portiamo al mare "normale " le fanciulle . all'asilo è giorno di vacanza essendo "mezza festa" mentre i genitori lavorano . in questo momento sono distese sul mio letto e cantano a squarciagola . e la casa è un casino.
fuori fa un gran caldo....
ieri abbiamo passato la giornata al mar morto (40 gradi abbondanti all'ombra) ma quel mare è una meraviglia per tutti i mali del mondo e oggi invece portiamo al mare "normale " le fanciulle . all'asilo è giorno di vacanza essendo "mezza festa" mentre i genitori lavorano . in questo momento sono distese sul mio letto e cantano a squarciagola . e la casa è un casino.
fuori fa un gran caldo....
domenica 26 settembre 2010
invece di andare a gerusalemme
invece di andare a gerusalemme abbiamo deciso di starcene a casa, anche perchè mi ha preso l'ennesimo mal di stomaco e schiena , con gonfiore e dolori.
il mio massaggiatore russo, un medico tra l'altro , bravissimo, dice che ho il diaframma che non va un granchè ( probabilmente ogni tanto mi dimentico di respirare ) e un muscolo tutto rattrappito tra la schiena e la pancia .
mi ha dato degli esercizi di ginnastica .
mi sento uno schifo, uno strazio, una vecchietta.
il mio massaggiatore russo, un medico tra l'altro , bravissimo, dice che ho il diaframma che non va un granchè ( probabilmente ogni tanto mi dimentico di respirare ) e un muscolo tutto rattrappito tra la schiena e la pancia .
mi ha dato degli esercizi di ginnastica .
mi sento uno schifo, uno strazio, una vecchietta.
mercoledì 22 settembre 2010
succot
saranno anche belle ma queste feste non finiscono più, adesso è il turno di succot e bisogna fare la succà e decorarla. per fortuna a casa non ho posto e si fa dai figli, grazie a Dio.
così in compenso ho avuto a dormire una nipote grande e una piccola che hanno dormito da me, anzi a letto con me. la piccola, una delle gemelle ,ama molto dormire con un piede sulla mia testa , o un braccio, dipende.
così adesso sono vagamente rincretinita , perchè non ricordo di aver veramente dormito ma tra un pà vado a far compere con la nipote grande, che ha voglia di un vestito, e la stanchezza mi passerà.
si spera-
così in compenso ho avuto a dormire una nipote grande e una piccola che hanno dormito da me, anzi a letto con me. la piccola, una delle gemelle ,ama molto dormire con un piede sulla mia testa , o un braccio, dipende.
così adesso sono vagamente rincretinita , perchè non ricordo di aver veramente dormito ma tra un pà vado a far compere con la nipote grande, che ha voglia di un vestito, e la stanchezza mi passerà.
si spera-
domenica 19 settembre 2010
yom kippur
ieri era yom kippur , giorno di espiazione e digiuno per tutti gli ebrei del mondo.
in israele è un giorno straordinario.
tutto è chiuso fin dalle prime ore del pomeriggio , compresi porti, aeroporti , scuole, negozi, radio, tivù,tutto tutto tutto.
e dal momento in cui inizia il digiuno, quest'anno è stato venerdì verso le 17 e 20, si fermano anche tutte le automobili , si riempiono le sinagoghe e cade un silenzio di tomba.
eppure non esiste una legge che obblighi la popolazione a tener ferma la macchina, nè del resto tutti digiunano o vanno a pregare, tutt'altro, eppure, da sempre, è così.
si vedono ogni tanto passare solo ambulanze e macchine della polizia, e basta...niente, zero.
subito dopo le strade si riempiono di bambini felici ( loro comunque non digiunano) che girano in bici ovunque , senza pericolo ,e anche di adulti in bici, e di tanta altra gente che passeggia ovunque, anche nelle strade abitualmente più trafficate , come niente fosse.
alle 18 e 30 di sabato, ieri, è finito anche quest'anno il digiuno, e in un secondo le strade sono tornate ad essere quello che sono sempre, incasinate e rumorose e trafficatissime e si è rotto in un attimo l'incanto.
il giorno di kippur, per 24 0re, amo ancora tanto questo pazzo paese.
in israele è un giorno straordinario.
tutto è chiuso fin dalle prime ore del pomeriggio , compresi porti, aeroporti , scuole, negozi, radio, tivù,tutto tutto tutto.
e dal momento in cui inizia il digiuno, quest'anno è stato venerdì verso le 17 e 20, si fermano anche tutte le automobili , si riempiono le sinagoghe e cade un silenzio di tomba.
eppure non esiste una legge che obblighi la popolazione a tener ferma la macchina, nè del resto tutti digiunano o vanno a pregare, tutt'altro, eppure, da sempre, è così.
si vedono ogni tanto passare solo ambulanze e macchine della polizia, e basta...niente, zero.
subito dopo le strade si riempiono di bambini felici ( loro comunque non digiunano) che girano in bici ovunque , senza pericolo ,e anche di adulti in bici, e di tanta altra gente che passeggia ovunque, anche nelle strade abitualmente più trafficate , come niente fosse.
alle 18 e 30 di sabato, ieri, è finito anche quest'anno il digiuno, e in un secondo le strade sono tornate ad essere quello che sono sempre, incasinate e rumorose e trafficatissime e si è rotto in un attimo l'incanto.
il giorno di kippur, per 24 0re, amo ancora tanto questo pazzo paese.
giovedì 16 settembre 2010
bollettino medico , yom kippur , lo shofar e i rabbini
terzo giorno di influenza , oggi ho dormito molto e adesso mi sento un pò meglio.
aggiungo qui questo lungo e bellissimo articolo ricevuto da beppe damascelli che rinngrazio .
è apparso su "Kolot" .
L’aspro scambio di lettere fra Shadal e Benamozegh sul significato del suono dello shofar. Dalla derashà tenuta il 1° giorno di Rosh Hashana all’Oratorio Di Castro di via Balbo, Roma
Gianfranco Di Segni
A Rosh Hashana in genere si fa il consuntivo dell’anno appena trascorso. Una delle caratteristiche di quest’anno è stata il dibattito che ha animato la comunità ebraica italiana riguardo al ruolo dei rabbini, con accese discussioni sui rabbini e fra i rabbini stessi. Ricordiamone qualcuna: la visita del papa alla sinagoga di Roma, con rabbini che hanno partecipato e altri che si sono astenuti dal farlo; la vicenda delle ciambellette nella comunità di Roma, che è finita addirittura sulle pagine della stampa nazionale; la revoca del rabbino capo di Torino; lo stato della kashrut a Roma. (La lista non è affatto esaustiva). Qualcuno si stupisce delle discussioni fra i rabbini. In realtà, non si capisce perché le divergenze di opinioni fra il presidente (a livello locale o nazionale) e il capo dell’opposizione siano viste come normali e, anzi, ci si meraviglierebbe se non fosse così, mentre quando i rabbini discutono fra di loro ciò è visto come qualcosa di inusuale. Invece, è proprio vero il contrario: fra i rabbini ci sono sempre state diverse opinioni.
Senza risalire troppo in là nel passato, limitiamoci all’Ottocento. In quel secolo, solo due rabbini italiani sono tuttora conosciuti a livello internazionale: Shadal (Shemuel David Luzzatto; Trieste 1800 - Padova 1865) ed Elia Benamozegh (Livorno 1823-1900). Su di loro si organizzano convegni, si scrivono articoli e libri, si fanno tesi di laurea. I loro lavori sono pubblicati o ripubblicati e sono tradotti in diverse lingue. Ebbene, questi due grandi rabbini se ne dicevano di tutti i colori l’uno all’altro.
Uno dei maggiori punti in discussione fra Shadal e Benamozegh era il valore da attribuire alla Kabbalà: Benamozegh ne era un appassionato sostenitore, Shadal d’altro canto vedeva in essa solo “vaneggiamenti metafisici… [e] i nostri Maestri ne conobbero la futilità e le ree conseguenze”. Connessa con la polemica sulla Kabbalà era quella sul valore da attribuire al cristianesimo e ai rapporti interreligiosi (suona familiare? – gds). Guardate cosa scrisse Shadal a Benamozegh sui cabbalisti l’8.9.1863: “… i nuovi Cabbalisti, novelli gesucristi, tendono ad abbattere la Sinagoga…”. E in una lettera del mese precedente Shadal così scriveva a Benamozegh: “Recentemente ho veduto il Suo opuscolo sui Missionarii, e v’osservai una pagina, scagliata contro di me senz’alcun bisogno, e con insinuazioni calunniose, quasi io mi fossi un ipocrita. Qui io avrei dovuto rispondere. Ma Dio mi fe’ forte, e dissi, e scrissi in lettera confidenziale: Penso lasciarlo ragliare – non mai pensando che queste mie parole potessero venire usate quali armi contro di Lei”. (Suona familiare questa diffusione impropria di messaggi confidenziali? – gds). Shadal proseguiva: “Né mai ho pensato d’attribuire a Lei la natura del quadrupede ragghiante, animale da me sempre più stimato di quanto comunemente si suole… Ad ogni modo, Ella non ha bisogno ch’io Le dichiari ch’Ella non fu mai un miccio agli occhi miei, ma che usato ho il verbo ragliare per similitudine… E, ciò facendo, non fu Ella l’offeso, ma lo fu il povero miccio. Perocché i ragli asinini sono sempre sinceri… Al contrario le parole, da Lei pubblicate contro di me nel suaccennato opuscolo, esprimono falsità e calunnie…”.
Rav Benamozegh rispose immediatamente a Shadal, il 12 settembre 1863, con una lunga lettera (pubblicata anche in “Scritti scelti”, Rassegna Mensile d’Israel, 1955, pp. 262-272) in cui usava espressioni meno pungenti, forse anche per la notevole differenza di età (era di 23 anni più giovane). Sull’asino replicò: “Io credo che possiamo ancora intenderci, che ci possiamo far delle reciproche concessioni, ed il giorno in cui uniti insieme ci presenteremo al mondo… mi parrà di sentire in lontananza un raglio diverso da quello che ella udì nel mio opuscolo; il raglio del miccio di Mélech à Masciach [il Re Messia]”. Sulla Kabbalà, Benamozegh cita a Shadal gli antici cabbalisti, come R. Hai Gaon, Ra’avad, Ramban [Nachmanide], Rashbà, Cordovero, R. Yosef Caro, Abrabanel e altri, e infine gli chiede: “Dirà che anche questi sono Misticisti e Gesucristi? Padrone di dirlo e di pensarlo. Per me tengo i nominati, non le dispiaccia, più autorevoli maestri di ciò che sia Mosaismo, che non altri per quanto dottrina e fama si abbiano al mondo”. In altre parole, fra il Nachmanide e Shadal, Benamozegh non ha dubbi su chi preferire.
Un aspetto su cui Benamozegh e Shadal dibatterono in questo scambio di lettere, inviate in prossimità di Rosh Hashanà, fu il significato da attribuire alla mitzwà del suono dello shofar, che si presta in effetti a diverse interpretazioni, visto che la Torah non dice molto a suo riguardo. Così scrisse Rav Benamozegh a Shadal alla fine della succitata lettera: “Domani ella udrà il Sciofar ed io lo udirò. A lei cosa dirà quel suono? Il suo Mosaismo materiale che cosa le dirà? Certo nient’altro che una di quelle mille graziose ma puerili ragioni che ne furono date fuori della Cabbalà; e per sentirlo con devozione, per dare importanza a tekià, scebarim, teruà [i diversi suoni dello shofar], le ci vorrà uno sforzo di fede non ordinario. Per me, lei lo sa, la cosa è diversa. Ogni nota ha la sua importanza, come ogni atomo della materia è un mistero – come ogni corpo ha il suo posto e il suo valore nella creazione. Per me la Torà è il tipo del mondo, è il mondo nella mente di Dio, è il verbo incarnato [sic! – gds] nelle Mizvot ammasiyoth [mitzwòt pratiche]. E quando udirò dimani il Sciofar dirò anch’io: viva S. D. L. molti e molti anni felici, Dio gli risparmi altri dolori perché la sua mente si conservi serena e forte nella cultura delle lettere sacre ed affinché se un giorno vorrà essere gesucristo anche lui come R. Akiba e Aramban, egli possa rivolgere la sua scienza potente al trionfo del Vero…”.
Shadal rispondeva il 18.9.1863. Dopo un appunto un po’ sprezzante su un errore di sintassi commesso da Benamozegh, “uno di quegli sbagli, in cui facilmente incappa chiunque non ha studiato la lingua latina”, scriveva: “Le dirò che i trilli del Sciofar furono (a mio credere) da Dio comandati per porre a pubblica notizia (quando non si stampavano calendari) il principio dell’anno; nella stessa guisa che nel decimo giorno dell’anno si portava ad universale conoscenza, col medesimo Sciofar, l’arrivo dell’anno del Giubileo. Se in oggi tali sonate hanno perduto il loro scopo, conservano sempre, come tante cerimonie, l’immenso valore di ricordarci l’antica nostra esistenza politica, e ravvivano in noi il sentimento di nazionalità, il quale, senza tanti e tanti piccoli, ma ripetuti, ricordi, forse sarebbesi estinto in noi, come lo fu in tutte le altre antiche nazioni… Quella buccina è per me il tamburo della nazionalità, dell’esistenza d’un popolo, che fu nazione, e che in oggi non vive che in Dio, e che cesserà di esistere allora soltanto che cesserà di credere in Dio”. Shadal prosegue scrivendo: “… la mia avversione alla Cabbalà non è incredulità, non è eterodossia, ma è profondo sentimento religioso… Aggiungerò, a scanso d’equivoci, che per semplice e materiale Mosaismo intendo p. es. suonare il Sciofar, o udirne le sonate, senza Cavanot [meditazioni] misteriose, ma colla sola cavanà d’eseguire un divino precetto, il quale è per noi sacro, per la semplice ragione che ci fu imposto da Dio… Chi difende le Cavanot, difende dottrine, di cui non incontrasi vestigio nella Misnà e nel Talmud; e chi, ciò facendo, si crede ortodosso, è un fanatico, che può essere tollerato; ma chi osa dichiarare eterodosso chi in ciò non la pensa come lui, è un impertinente…”.
Shadal, in questa lettera, affermava anche che “il misticismo [è] già da sé troppo contrario allo spirito del secolo, ed ogni giorno in più scarso di partigiani”. Su questo punto Benamozegh gli dà ragione. Così infatti aveva scritto: “la Cabbalà … è la più maltrattata; ed io ho un segreto inchinamento [inclinamento?] alle cause infelici ma vere. Mi chiami pure se vuole avvocato delle cause perdute. È questo il mio carattere e basta. Io ho considerato la cabbalà come Meth mizvà sceén lo koberim [un morto che non ha chi si occupi della sua sepoltura], che antecede ad ogni dovere”. C’è da dire che Rav Benamozegh ha curato bene il suo “morto”: infatti, oggi la Kabbalà è più che mai popolare, a volte persino con modalità eccessive, e sono moltissimi coloro che se ne interessano a livello storico-scientifico. Se Scholem e su ccessori hanno “resuscitato” gli studi sulla Kabbalà, si deve grazie a persone come Benamozegh e nonostante quelli come Shadal.
Vorrei concludere riportando quanto ha scritto sullo shofar Rav Sergio Sierra z.l., scomparso da meno di un anno. Rav Sierra era romano e quando stava a Roma pregava sui banchi di questo tempio. È stato rabbino capo a Bologna e poi per molti anni rabbino capo di Torino, prima di fare la aliyà a Gerusalemme. È stato anche presidente dell’Assemblea dei rabbini italiani, professore all’Università di Genova e autore di numerose opere fondamentali. Fra queste, la più importante per la mia formazione è stata “Il valore etico delle mitzvot”, forse il primo libro su questi argomenti che lessi da ragazzo. Il capitolo sul significato dello shofar è stato riportato su Kolot la settimana scorsa (7.9.10).
Così scrive, fra l’altro, Rav Sierra: “Diverse sono le spiegazioni scientifiche o pseudoscientifiche che gli studiosi di storia delle religioni hanno dato ricercando l'origine e il valore dello Shofar. Prescindendo da queste teorie, più o meno accettabili per noi ebrei, qui descriveremo qual è il valore simbolico di questo caratteristico strumento di manifestazione religiosa nella tradizione d'Israele, la quale sola riesce a dare un vivo contenuto etico alle forme rituali ebraiche. […] Lo Shofar, quindi, è considerato per il suo originario valore storico e per il suono caratteristico che esso emette, come un coefficiente valido ad influire notevolmente sull'animo del credente, affinché questi sia stimolato a compiere quella indispensabile opera di introspezione e di valutazione sincera ed obiettiva della sua condotta morale onde ritrovare in contrizione quella forza morale necessaria a riportarlo sulla strada dell'onestà e quindi della redenzione. Lo Shofar viene suonato pure a conclusione della giornata del Kippur quale auspicio di conseguita redenzione da parte della Comunità… Nella Toràh poi il sinonimo di Shofar, cioè la parola Iovèl, diede il nome ad una delle più geniali istituzioni sociali dell'Ebraismo: l'anno giubilare, per cui ogni cinquantesimo anno, al suono dello Shofar, veniva ristabilito l'infranto equilibrio economico e sociale tra le classi del popolo e veniva proclamata la liberazione degli schiavi. Secondo la tradizione ebraica, inoltre, lo Shofar farà risuonare le sue note gravi e solenni nel giorno della completa resurrezione nazionale ebraica e, nei giorni a venire, saluterà il sorgere dell'alba messianica per l'umanità travagliata, il giorno cioè, in cui questa avrà ritrovato la via della fratellanza umana ed avrà riconosciuto Dio, come è venerato da Israele, quale l'unico Signore dell'Universo&h ellip; Una voce antica dunque destinata all'introspezione per il rinnovamento della nostra vita spirituale, un ammonimento all'osservanza dei nostri doveri ebraici ed umani per servire un nobile passato e un futuro sublime”.
Rav Sierra ha quindi una posizione in parte simile a quella di Shadal, perché attribuisce alla mitzwà dello shofar un significato storico, rivolto però non solo al passato ma anche al futuro. D’altro canto, Rav Sierra è anche in sintonia con Rav Benamozegh, perché capisce bene quanto lo shofar faccia risuonare le nostre corde interiori. (Come mi ha poi detto un’amica che si autodefinisce laica, “lo shofar mi fa bene, fa parte della mia infanzia e adolescenza in famiglia”.)
Alla fine della derashà, alcuni frequentatori del tempio di via Balbo mi si sono avvicinati. Alessandro Venezia mi ha detto che lo shofar è l’unico che riesce a fare stare zitto il pubblico. E se è detto da lui, che di corde vocali si intende anche professionalmente, c’è proprio da crederci! Alessandro ha ben colto la potenza materiale e spirituale della voce dello shofar, in grado di ammutolire tutto e tutti. Duccio Levi Mortera, che invece è un intenditore di parole, mi ha recitato “su un piede solo” la seguente poesia da lui composta in occasione della faccenda delle ciambellette. È così bella che la propongo qua sotto ai lettori.
Le ciambellette
Da ‘na vita noi famo ciambellette
co’ farina cascerre naturalmente.
Cotte bbene so’ bbone so’ perfette
poi, fatte a casa è più che conveniente.
St’anno uno, e nun dico barzellette,
chissà che je&r squo; passato pe’ la mente
dice: “ ‘n se ponno fa’ pena er karette”
e la farina? “via immediatamente”.
Nun doveva succede sto’ bavelle
la keillà de roma è storia a sé.
Semo finiti in bocca a lo ngharelle.
Speramo che, in futuro, nun ce sia
chi, ricordanno ‘na legge de Moscè,
ce negherà i carciofi alla giudia
Leonardo Levi Mortera (Duccio)
aggiungo qui questo lungo e bellissimo articolo ricevuto da beppe damascelli che rinngrazio .
è apparso su "Kolot" .
L’aspro scambio di lettere fra Shadal e Benamozegh sul significato del suono dello shofar. Dalla derashà tenuta il 1° giorno di Rosh Hashana all’Oratorio Di Castro di via Balbo, Roma
Gianfranco Di Segni
A Rosh Hashana in genere si fa il consuntivo dell’anno appena trascorso. Una delle caratteristiche di quest’anno è stata il dibattito che ha animato la comunità ebraica italiana riguardo al ruolo dei rabbini, con accese discussioni sui rabbini e fra i rabbini stessi. Ricordiamone qualcuna: la visita del papa alla sinagoga di Roma, con rabbini che hanno partecipato e altri che si sono astenuti dal farlo; la vicenda delle ciambellette nella comunità di Roma, che è finita addirittura sulle pagine della stampa nazionale; la revoca del rabbino capo di Torino; lo stato della kashrut a Roma. (La lista non è affatto esaustiva). Qualcuno si stupisce delle discussioni fra i rabbini. In realtà, non si capisce perché le divergenze di opinioni fra il presidente (a livello locale o nazionale) e il capo dell’opposizione siano viste come normali e, anzi, ci si meraviglierebbe se non fosse così, mentre quando i rabbini discutono fra di loro ciò è visto come qualcosa di inusuale. Invece, è proprio vero il contrario: fra i rabbini ci sono sempre state diverse opinioni.
Senza risalire troppo in là nel passato, limitiamoci all’Ottocento. In quel secolo, solo due rabbini italiani sono tuttora conosciuti a livello internazionale: Shadal (Shemuel David Luzzatto; Trieste 1800 - Padova 1865) ed Elia Benamozegh (Livorno 1823-1900). Su di loro si organizzano convegni, si scrivono articoli e libri, si fanno tesi di laurea. I loro lavori sono pubblicati o ripubblicati e sono tradotti in diverse lingue. Ebbene, questi due grandi rabbini se ne dicevano di tutti i colori l’uno all’altro.
Uno dei maggiori punti in discussione fra Shadal e Benamozegh era il valore da attribuire alla Kabbalà: Benamozegh ne era un appassionato sostenitore, Shadal d’altro canto vedeva in essa solo “vaneggiamenti metafisici… [e] i nostri Maestri ne conobbero la futilità e le ree conseguenze”. Connessa con la polemica sulla Kabbalà era quella sul valore da attribuire al cristianesimo e ai rapporti interreligiosi (suona familiare? – gds). Guardate cosa scrisse Shadal a Benamozegh sui cabbalisti l’8.9.1863: “… i nuovi Cabbalisti, novelli gesucristi, tendono ad abbattere la Sinagoga…”. E in una lettera del mese precedente Shadal così scriveva a Benamozegh: “Recentemente ho veduto il Suo opuscolo sui Missionarii, e v’osservai una pagina, scagliata contro di me senz’alcun bisogno, e con insinuazioni calunniose, quasi io mi fossi un ipocrita. Qui io avrei dovuto rispondere. Ma Dio mi fe’ forte, e dissi, e scrissi in lettera confidenziale: Penso lasciarlo ragliare – non mai pensando che queste mie parole potessero venire usate quali armi contro di Lei”. (Suona familiare questa diffusione impropria di messaggi confidenziali? – gds). Shadal proseguiva: “Né mai ho pensato d’attribuire a Lei la natura del quadrupede ragghiante, animale da me sempre più stimato di quanto comunemente si suole… Ad ogni modo, Ella non ha bisogno ch’io Le dichiari ch’Ella non fu mai un miccio agli occhi miei, ma che usato ho il verbo ragliare per similitudine… E, ciò facendo, non fu Ella l’offeso, ma lo fu il povero miccio. Perocché i ragli asinini sono sempre sinceri… Al contrario le parole, da Lei pubblicate contro di me nel suaccennato opuscolo, esprimono falsità e calunnie…”.
Rav Benamozegh rispose immediatamente a Shadal, il 12 settembre 1863, con una lunga lettera (pubblicata anche in “Scritti scelti”, Rassegna Mensile d’Israel, 1955, pp. 262-272) in cui usava espressioni meno pungenti, forse anche per la notevole differenza di età (era di 23 anni più giovane). Sull’asino replicò: “Io credo che possiamo ancora intenderci, che ci possiamo far delle reciproche concessioni, ed il giorno in cui uniti insieme ci presenteremo al mondo… mi parrà di sentire in lontananza un raglio diverso da quello che ella udì nel mio opuscolo; il raglio del miccio di Mélech à Masciach [il Re Messia]”. Sulla Kabbalà, Benamozegh cita a Shadal gli antici cabbalisti, come R. Hai Gaon, Ra’avad, Ramban [Nachmanide], Rashbà, Cordovero, R. Yosef Caro, Abrabanel e altri, e infine gli chiede: “Dirà che anche questi sono Misticisti e Gesucristi? Padrone di dirlo e di pensarlo. Per me tengo i nominati, non le dispiaccia, più autorevoli maestri di ciò che sia Mosaismo, che non altri per quanto dottrina e fama si abbiano al mondo”. In altre parole, fra il Nachmanide e Shadal, Benamozegh non ha dubbi su chi preferire.
Un aspetto su cui Benamozegh e Shadal dibatterono in questo scambio di lettere, inviate in prossimità di Rosh Hashanà, fu il significato da attribuire alla mitzwà del suono dello shofar, che si presta in effetti a diverse interpretazioni, visto che la Torah non dice molto a suo riguardo. Così scrisse Rav Benamozegh a Shadal alla fine della succitata lettera: “Domani ella udrà il Sciofar ed io lo udirò. A lei cosa dirà quel suono? Il suo Mosaismo materiale che cosa le dirà? Certo nient’altro che una di quelle mille graziose ma puerili ragioni che ne furono date fuori della Cabbalà; e per sentirlo con devozione, per dare importanza a tekià, scebarim, teruà [i diversi suoni dello shofar], le ci vorrà uno sforzo di fede non ordinario. Per me, lei lo sa, la cosa è diversa. Ogni nota ha la sua importanza, come ogni atomo della materia è un mistero – come ogni corpo ha il suo posto e il suo valore nella creazione. Per me la Torà è il tipo del mondo, è il mondo nella mente di Dio, è il verbo incarnato [sic! – gds] nelle Mizvot ammasiyoth [mitzwòt pratiche]. E quando udirò dimani il Sciofar dirò anch’io: viva S. D. L. molti e molti anni felici, Dio gli risparmi altri dolori perché la sua mente si conservi serena e forte nella cultura delle lettere sacre ed affinché se un giorno vorrà essere gesucristo anche lui come R. Akiba e Aramban, egli possa rivolgere la sua scienza potente al trionfo del Vero…”.
Shadal rispondeva il 18.9.1863. Dopo un appunto un po’ sprezzante su un errore di sintassi commesso da Benamozegh, “uno di quegli sbagli, in cui facilmente incappa chiunque non ha studiato la lingua latina”, scriveva: “Le dirò che i trilli del Sciofar furono (a mio credere) da Dio comandati per porre a pubblica notizia (quando non si stampavano calendari) il principio dell’anno; nella stessa guisa che nel decimo giorno dell’anno si portava ad universale conoscenza, col medesimo Sciofar, l’arrivo dell’anno del Giubileo. Se in oggi tali sonate hanno perduto il loro scopo, conservano sempre, come tante cerimonie, l’immenso valore di ricordarci l’antica nostra esistenza politica, e ravvivano in noi il sentimento di nazionalità, il quale, senza tanti e tanti piccoli, ma ripetuti, ricordi, forse sarebbesi estinto in noi, come lo fu in tutte le altre antiche nazioni… Quella buccina è per me il tamburo della nazionalità, dell’esistenza d’un popolo, che fu nazione, e che in oggi non vive che in Dio, e che cesserà di esistere allora soltanto che cesserà di credere in Dio”. Shadal prosegue scrivendo: “… la mia avversione alla Cabbalà non è incredulità, non è eterodossia, ma è profondo sentimento religioso… Aggiungerò, a scanso d’equivoci, che per semplice e materiale Mosaismo intendo p. es. suonare il Sciofar, o udirne le sonate, senza Cavanot [meditazioni] misteriose, ma colla sola cavanà d’eseguire un divino precetto, il quale è per noi sacro, per la semplice ragione che ci fu imposto da Dio… Chi difende le Cavanot, difende dottrine, di cui non incontrasi vestigio nella Misnà e nel Talmud; e chi, ciò facendo, si crede ortodosso, è un fanatico, che può essere tollerato; ma chi osa dichiarare eterodosso chi in ciò non la pensa come lui, è un impertinente…”.
Shadal, in questa lettera, affermava anche che “il misticismo [è] già da sé troppo contrario allo spirito del secolo, ed ogni giorno in più scarso di partigiani”. Su questo punto Benamozegh gli dà ragione. Così infatti aveva scritto: “la Cabbalà … è la più maltrattata; ed io ho un segreto inchinamento [inclinamento?] alle cause infelici ma vere. Mi chiami pure se vuole avvocato delle cause perdute. È questo il mio carattere e basta. Io ho considerato la cabbalà come Meth mizvà sceén lo koberim [un morto che non ha chi si occupi della sua sepoltura], che antecede ad ogni dovere”. C’è da dire che Rav Benamozegh ha curato bene il suo “morto”: infatti, oggi la Kabbalà è più che mai popolare, a volte persino con modalità eccessive, e sono moltissimi coloro che se ne interessano a livello storico-scientifico. Se Scholem e su ccessori hanno “resuscitato” gli studi sulla Kabbalà, si deve grazie a persone come Benamozegh e nonostante quelli come Shadal.
Vorrei concludere riportando quanto ha scritto sullo shofar Rav Sergio Sierra z.l., scomparso da meno di un anno. Rav Sierra era romano e quando stava a Roma pregava sui banchi di questo tempio. È stato rabbino capo a Bologna e poi per molti anni rabbino capo di Torino, prima di fare la aliyà a Gerusalemme. È stato anche presidente dell’Assemblea dei rabbini italiani, professore all’Università di Genova e autore di numerose opere fondamentali. Fra queste, la più importante per la mia formazione è stata “Il valore etico delle mitzvot”, forse il primo libro su questi argomenti che lessi da ragazzo. Il capitolo sul significato dello shofar è stato riportato su Kolot la settimana scorsa (7.9.10).
Così scrive, fra l’altro, Rav Sierra: “Diverse sono le spiegazioni scientifiche o pseudoscientifiche che gli studiosi di storia delle religioni hanno dato ricercando l'origine e il valore dello Shofar. Prescindendo da queste teorie, più o meno accettabili per noi ebrei, qui descriveremo qual è il valore simbolico di questo caratteristico strumento di manifestazione religiosa nella tradizione d'Israele, la quale sola riesce a dare un vivo contenuto etico alle forme rituali ebraiche. […] Lo Shofar, quindi, è considerato per il suo originario valore storico e per il suono caratteristico che esso emette, come un coefficiente valido ad influire notevolmente sull'animo del credente, affinché questi sia stimolato a compiere quella indispensabile opera di introspezione e di valutazione sincera ed obiettiva della sua condotta morale onde ritrovare in contrizione quella forza morale necessaria a riportarlo sulla strada dell'onestà e quindi della redenzione. Lo Shofar viene suonato pure a conclusione della giornata del Kippur quale auspicio di conseguita redenzione da parte della Comunità… Nella Toràh poi il sinonimo di Shofar, cioè la parola Iovèl, diede il nome ad una delle più geniali istituzioni sociali dell'Ebraismo: l'anno giubilare, per cui ogni cinquantesimo anno, al suono dello Shofar, veniva ristabilito l'infranto equilibrio economico e sociale tra le classi del popolo e veniva proclamata la liberazione degli schiavi. Secondo la tradizione ebraica, inoltre, lo Shofar farà risuonare le sue note gravi e solenni nel giorno della completa resurrezione nazionale ebraica e, nei giorni a venire, saluterà il sorgere dell'alba messianica per l'umanità travagliata, il giorno cioè, in cui questa avrà ritrovato la via della fratellanza umana ed avrà riconosciuto Dio, come è venerato da Israele, quale l'unico Signore dell'Universo&h ellip; Una voce antica dunque destinata all'introspezione per il rinnovamento della nostra vita spirituale, un ammonimento all'osservanza dei nostri doveri ebraici ed umani per servire un nobile passato e un futuro sublime”.
Rav Sierra ha quindi una posizione in parte simile a quella di Shadal, perché attribuisce alla mitzwà dello shofar un significato storico, rivolto però non solo al passato ma anche al futuro. D’altro canto, Rav Sierra è anche in sintonia con Rav Benamozegh, perché capisce bene quanto lo shofar faccia risuonare le nostre corde interiori. (Come mi ha poi detto un’amica che si autodefinisce laica, “lo shofar mi fa bene, fa parte della mia infanzia e adolescenza in famiglia”.)
Alla fine della derashà, alcuni frequentatori del tempio di via Balbo mi si sono avvicinati. Alessandro Venezia mi ha detto che lo shofar è l’unico che riesce a fare stare zitto il pubblico. E se è detto da lui, che di corde vocali si intende anche professionalmente, c’è proprio da crederci! Alessandro ha ben colto la potenza materiale e spirituale della voce dello shofar, in grado di ammutolire tutto e tutti. Duccio Levi Mortera, che invece è un intenditore di parole, mi ha recitato “su un piede solo” la seguente poesia da lui composta in occasione della faccenda delle ciambellette. È così bella che la propongo qua sotto ai lettori.
Le ciambellette
Da ‘na vita noi famo ciambellette
co’ farina cascerre naturalmente.
Cotte bbene so’ bbone so’ perfette
poi, fatte a casa è più che conveniente.
St’anno uno, e nun dico barzellette,
chissà che je&r squo; passato pe’ la mente
dice: “ ‘n se ponno fa’ pena er karette”
e la farina? “via immediatamente”.
Nun doveva succede sto’ bavelle
la keillà de roma è storia a sé.
Semo finiti in bocca a lo ngharelle.
Speramo che, in futuro, nun ce sia
chi, ricordanno ‘na legge de Moscè,
ce negherà i carciofi alla giudia
Leonardo Levi Mortera (Duccio)
mercoledì 15 settembre 2010
la vita in diretta
sono talmente lessa e rimbecillita dalla febbre ( adesso finalmente mi è venuta) che ho passato buona parte del pomeriggio distesa sul divano del salotto a soffiarmi il naso a guardare la tivù italiana e il telegiornale italiano.
sono un pò una schizofrenica , in italia mi sembra quasi normale, vista da qui la tivù italiana mi fa una certa impressione .
specialmente mi ha colpita la "vita in diretta" con Mara Venier , sguaiata e volgare, che non lasciava parlare nessuno e durante tutta la trasmissione ha tenuto un bambolotto in braccio e lamberto Sposini che sembrava che si vergognasse di essere lì . ma forse sono io che non ci capisco niente.
sono un pò una schizofrenica , in italia mi sembra quasi normale, vista da qui la tivù italiana mi fa una certa impressione .
specialmente mi ha colpita la "vita in diretta" con Mara Venier , sguaiata e volgare, che non lasciava parlare nessuno e durante tutta la trasmissione ha tenuto un bambolotto in braccio e lamberto Sposini che sembrava che si vergognasse di essere lì . ma forse sono io che non ci capisco niente.
martedì 14 settembre 2010
sono malata!!!!!
sarà l'aria condizionata , sarà una delle gemelle che mi ha attaccato il raffeddore , ma mi sono svegliata con l'influenza e il naso che cola senza interruzione.
se almeno mi venisse un pò di febbre mi sentirei più tranquilla a far niente a letto, mi sentirei giustificata.
tutta colpa di mia madre che se non avevo la febbre a quaranta mi mandava a scuola.
così eccomi qua, vestita, lavata e pettinata ( e malata!) a lavorare al computer...
che rabbia.
se almeno mi venisse un pò di febbre mi sentirei più tranquilla a far niente a letto, mi sentirei giustificata.
tutta colpa di mia madre che se non avevo la febbre a quaranta mi mandava a scuola.
così eccomi qua, vestita, lavata e pettinata ( e malata!) a lavorare al computer...
che rabbia.
domenica 12 settembre 2010
da mercoledì a sabato sera....e la verità
abbiamo festeggiato il capodanno con figli e nipoti. al mio ritorno ho trovato questi due articoli che mi ha spedito beppe damascelli. riguardano l'italia ma in realtà riguardano il mondo , perchè la verità riguarda tutti i cittadini del mondo.
insieme a quello di Claudio Fava, apparso l'11 settembre il bellissimo articolo di Giorgio Fontana pubblicato dal Manifesto il 12 agosto.
L'UNITA', 11.09.2010
FURTI DI MEMORIA
Claudio Fava
I nostri eroi che se la sono cercata
In memoria grata di quelli che hanno preferito farsi gli affari del Paese a costo della vita: da Vassallo a Borsellino, da Ambrosoli a Falcone.
Anch’io ne conosco parecchi, come dice Andreotti, che se la sono cercata. Che invece di farsi gli affari loro, di calare la testa come giunchi di paglia aspettando che se ne andasse via la mala giornata, hanno avuto la sfrontatezza di far bene il loro mestiere: giornalisti, giudici, sindacalisti, commercianti, politici. Se l’è cercata, tre giorni fa, il sindaco Vassallo che invece di dire sempre no a quei galantuomini della camorra ogni tanto qualche “forse” poteva pure farlo sentire o no? Se la cercò Libero Grassi, diciamolo senza stare a girarci attorno: chi glielo portava, benedetto cristiano, ad andare in televisione per dire che lui il pizzo non l’avrebbe mai pagato? Glielo spiegò pure il presidente dei commercianti palermitani, usando come una profezia le stesse parole di Andreotti: che tu così te la stai cercando, lo sai? Forse lo sapeva, forse no: comunque lo ammazzarono tre giorni dopo.
Se l’è cercata Falcone, se l’è cercata Borsellino, se la sono cercata Terranova, Costa, Chinnici: potevano fare i giudici come si suggerisce adesso, processi corti, brevi, stretti, un occhio di riguardo a chi se lo merita, cassetti generosi per ingoiare e dimenticare i fascicoli più sfacciati. E invece no: la mafia, i mafiosi, gli amici intoccabili dei mafiosi… come un’ossessione, una compulsione, un’ansia di carriera. Ecco, professionisti. Nella vita e nella morte: se la sono cercata, questa loro bella morte, di che si vengono a lamentare oggi gli orfanelli?
Se la cercò pure il generale Dalla Chiesa, e su questo Andreotti era già stato allusivo quanto basta due giorni dopo che l’ ammazzarono. Venne a lagnarsi da me di suo figlio Nando, disse in un’ intervista, quel ragazzo gli dava solo dispiaceri... Mentiva, grossolanamente. Ma a tanti piacque credergli. E’ questo il punto.
Andreotti, amico conclamato di capi mafia che protesse e curò in salute per lo meno fino al 1980 (sta scritto nelle sentenze), interpreta un senso comune molto volgare ma molto diffuso. Che si esaurisce in due parole: cazzi loro. Di chi ha voluto fare l’eroe ad ogni costo, di chi s’è messo a fare il poeta, il don Chisciotte, il cacciatore di draghi e mulini a vento, il fustigatore di costumi. Cazzi suoi, se Ambrosoli se la volle prendere proprio con la P2 e Michele Sindona, il banchiere che salvò la lira (Andreotti dixit). Quando Giovanni Falcone, dopo l’attentato all’Addaura, cominciò ad andare incontro alla propria morte, il Giornale di Sicilia ricevette una letterina (che subito pubblicò, incorniciata come un Picasso) da parte di un gruppo di cittadini palermitani. Erano i vicini di casa del giudice e gli mandavano a dire che, orgogliosi delle sue battaglie, preferivano che se l’ andasse a combattere altrove: che se poi lo facevano saltare in aria davanti al portone com’era accaduto alla buon’anima di Rocco Chinnici, chi l’avrebbe pagato il conto per rifare l’intonaco alla facciata?
Andreotti, ormai prossimo a rendere conto a chi di dovere delle proprie verità e delle proprie menzogne, ha detto solo quello che pensa e che ha sempre pensato. Su Ambrosoli e su quanti hanno ritenuto, in questi anni, di dover mettere la vita al servizio della propria onestà intellettuale. Nella miseria di quelle sue parole, è stato sincero. E adesso possiamo girarci attorno quanto vogliamo, ma sappiamo che sono due idee di Italia inconciliabili tra loro: da una parte l’ex presidente del Consiglio, dall’altra Ambrosoli e quelli come lui.
In mezzo ci siamo noi, notai del nulla, pronti sempre a distinguere, a comprendere, a spiegare che è vero ma anche, ad ammirare i furbi, a sorridere di complicità su ogni volgarità, a maledire i Palazzi in attesa d’essere invitati a pranzo anche noi. E a trovare sempre un pretesto per parlar d’altro, per indignarci d’altro, per cambiare canale.
Non mi convincerete a chiamarlo senatore, il signor Andreotti. Né in questo pezzo né mai. Sono quelli come lui i veri clandestini della repubblica, non i nigeriani che sbarcano a nuoto sulle nostre spiagge. In fondo ce la siamo cercata anche noi, facendo finta per tutti questi anni che quelli come Andreotti siano stati davvero padri della patria. Non certo la nostra patria, non certo la mia patria.
11 settembre 2010
**************************************************************
"Gli italiani furono spesso accusati, a torto o a ragione, di non rispettare sufficientemente la verità. Va detto che poche persone in qualsiasi paese hanno per la verità un rispetto religioso; gli italiano non sono diversi dagli altri uomini. [...] Tuttavia, collettivamente, sembrano dimenticare, talora, l'importanza unica della verità. Spesso la ignorano, l'abbelliscono, vi ricamano intorno, la negano, a seconda dei casi."
Così Luigi Barzini, nel suo classico Gli italiani. Sono passati cinquant'anni, ma la frase sembra descrivere alla perfezione il presente. Allora lo spregio della verità è in realtà un tratto tipico della nostra storia? Chissà: in ogni caso, non mi pare abbia mai raggiunto forme gravi quanto quelle degli ultimi anni. Non è mai stato così istituzionalizzato e diffuso, reso sistema invece che norma di sopravvivenza quotidiana.
Ricordate il caso Di Bella? I media dicevano che la sua cura contro il cancro era miracolosa, quando in realtà tutti gli oncologi avevano espresso il massimo scetticismo. Ma Di Bella era televisivo, era perfetto, era un padre Pio laico della medicina. L'importante non erano i fatti quanto la comunicabilità di un evento. Era il 1997, e fu un simbolo evidente della tendenza progressiva a equiparare del parere degli esperti a quello di chiunque altro — purché interessante. Un po' come chiedere a Cannavaro cosa ne pensa di Saviano, e prendere la sua opinione per autorevole, perché uscita da una bocca celebre.
In questi casi, la verità non è il fine dell'indagine. Il fine dell'indagine è raccontare una storia. Cifra di questo atteggiamento è il trionfo della figura dell'opinionista: affondiamo in una quantità di pareri e idee senza una bussola in grado di orientarci correttamente verso i fatti. E mentre l'opinionismo è spacciato come è simbolo della libertà di parola e della democratica espressione dei propri giudizi, in realtà eleva il parere a verità — un arlecchino di giudizi che si scontrano, e fra le quali emerge solo quello più potente.
Poco tempo fa, la filosofa Franca d'Agostini ha pubblicato un saggio dal titolo eloquente: Verità avvelenata (Bollati Boringhieri 2010). L'idea è indagare le forme di argomentazione presenti nel discorso pubblico e mostrare, con esempi tratti per lo più da affermazioni di politici, quanto le fallacie logiche siano presenti ovunque nelle società democratiche, e in Italia oggi: "qualsiasi verità risulta fin da principio contaminata da uno sfondo di preliminare sospetto." Delegittimare, insultare, avvelenare l'intero pozzo del dibattito. Perché tutto questo? Ci sono delle ragioni generali (come il fatto, indicato dall'autrice, che le regole stesse del discorso razionale sono incerte), ma nel caso dell'Italia contemporanea ci sono anche ragioni più circostanziate. Contingenze storiche che hanno portato a quello che ritengo il segno più vasto della crisi democratica del Paese: lo spregio per la verità e la razionalità, il disinteresse per la buona argomentazione.
Come sempre, Berlusconi è insieme causa, sintomo e simbolo di questo problema. Nell'ormai classico articolo di Gomez e Travaglio uscito su "l'Espresso" il 13 maggio 2004, i due autori raccontano quarantaquattro bugie dette dal premier, "escludendo i 115 minuti di deposizione spontanea al processo Sme-Ariosto (durante il quale Berlusconi riuscì a pronunciare ben 85 bugie allo straordinario ritmo di una balla ogni 81 secondi)".
La cosa interessante che questo modo di ragionare — lo spregio totale per l'idea di verità — sembra aver attecchito un po' ovunque. Berlusconi, quando è cosciente di dire il falso, lo dice tranquillamente perché sa che ormai la verità non può sconfiggere più le sue affermazioni: non è, per così dire, attiva nel mondo. Quindi verità e falsità sono concetti che non interessano più — basta dire ciò che serve al momento, magari smentirlo domani, non ha importanza.
D'Agostini parla di "costruzione di una realtà2" basata sulla comunicazione e non sull'informazione, e il processo di tale costruzione è stato lungo e diabolicamente meticoloso, nel corso degli ultimi vent'anni. Ma la costante emissione di parainformazioni e il continuo vivere in una "realtà2" ha prodotto una risposta coerente da parte di chi ascolta, e la colpa non è limitabile a chi parla. In altri termini: si sta smarrendo l'idea di un pubblico etico, di un pubblico capace di recepire la verità. Credo sia questa la grande differenza marcata dal berlusconismo: l'erosione della verità ora è dolorosamente sociale e diffusa ovunque.
Come scrive Davide Tarizzo in un saggio dell'antologia Forme contemporanee del totalitarismo (Bollati Boringhieri 2007): "la sfera del senso viene completamente integrata e assorbita nella sfera dell'assenso. L'ambiguità è il suo sentimento più veritiero." In una politica dell'applauso, dove la claque sottolinea un fatto accettandolo e mettendolo in ostensorio, il dissenso o la critica perdono di valore. Ma è proprio dalla volontà di dubitare e mettere in discussione — dall'umiltà e l'incertezza — che nasce la ricerca seria.
Ora, questo spregio per la verità come bene non è cosa nuova, e ha un vago sentore democristiano. Nello splendido monologo de Il divo, Sorrentino mette in bocca ad Andreotti un'argomentazione di stampo cattolico: la massima responsabilità è salvare il bene facendo il male, ignorando la questione della verità. Una simile metafisica è la stessa, in fondo, del Grande Inquisitore di Dostoevskij: sacrificando la libertà per la legge, si assicura una pretesa salvezza.
Se questa interpretazione è corretta, potremmo dire che tale politica del falso era in "buona fede" — per quanto carica di molte responsabilità civili e umane. Al contrario, la torsione finale del berlusconismo è lo spregio della verità in quanto tale, per ragioni assolutamente private. Dire il vero non è un elemento pericoloso in una visione delle cose, ma soltanto un dato pratico che va eliminato, perché rischia di compromettere il regno della menzogna — del "fa' come ti pare". C'è dunque una palese tensione etica del falso, o meglio ancora dell'indifferenza verso la separazione tra vero e falso. Il potere< sommerge la verità, la rende inutile: a emergere è la soluzione più forte, più interessante o più supportata — non la più plausibile.
E sempre per questo motivo, la colpa è "dei magistrati" e "dei giornalisti". Perché "fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità" (sentenza n. 255/1992, presidente A. Corasaniti, redattore M. Ferri). E perché "è diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d'informazione e di critica, limitata dall'osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e della buona fede" (legge n. 69, 3/02/1963, art. 2). Di qui la necessità della legge bavaglio e della sua estensione ai blogger. Tout se tient: il tema della verità è il filo rosso per comprendere l'inabissarsi della nostra etica pubblica.
Come reagire?
Alcuni pensano sia necessario un esame critico dell'idea di verità. Ad esempio Gianni Vattimo, che nel suo Addio alla verità (Meltemi 2009) propone di abbandonare questo concetto. Il ragionamento suona più o meno così: visto che c'è stato e c'è un uso ampiamente strumentale del vero come corrispondenza ai fatti, e uno svilimento totale del suo valore, la cosa migliore è lasciarlo perdere. Non ci sono verità disinteressate, l'oggettività è sempre schiava di determinati interessi. Qui Vattimo compie due errori tipici del relativismo: pensare che tutta la verità si riduca a Verità assolute (quelle religiose o di etica generale), e ritenere che in ogni caso ogni affermazione di verità corrisponda all'imposizione di una pretesa di dominio.
Ma questa è una reazione figlia della crisi, e non risolve nulla. Porta anzi ad assurdità palesi, come quando Vattimo parla della ricerca scientifica: "Magari [questi scienziati] cercano solo di vincere il premio Nobel, e anche questo è un interesse" (p. 25). Una conclusione che lascia quantomeno a bocca aperta.
Inoltre, c'è una miriade di verità con la "v" minuscola che sono perfettamente neutrali e sulle quasi ci basiamo ogni giorno: perché trascurarle? Pensare che chiunque dica il vero si arroghi una pretesa di dominio sull'altro — come se non esistesse alcuna verità condivisibile, come se lo stesso concetto uccida qualunque forma di dialogo o scetticismo — è un rimedio peggiore del male.
E allora, non sembra esserci atra prospettiva che quella di tornare alla buona vecchia etica della verità. La comprensione critica e morale del mondo non può che passare da questo concetto: minimale quanto si vuole, ma indispensabile. Che si tratti di comprare un chilo di pesche, o di dibattere attorno ai temi della bioetica.
Si può obiettare che non è affatto un compito facile. Certo: è estremamente delicato e comporta molti problemi: la responsabilità di fissare dei limiti, di trovare delle basi comuni, di argomentare con chiarezza, di fidarsi di determinati esperti, e soprattutto l'eterno rischio di sbagliare o cadere nella presunzione.
Ma questa è la condizione umana. Possiamo divorare il loto dell'egoismo e fregarcene che l'opinione pubblica venga inquinata dalla falsità. Oppure, possiamo accettare che bene e verità siano cose fragili e complesse, ma proprio per questo così bisognose d'attenzione. La scelta è solo nostra. Compiamola con responsabilità.
giorgio.fontana81@gmail.com
IL MANIFESTO, 12.08.2010
La verità ai tempi di Berlusconi
GIORGIO FONTANA
insieme a quello di Claudio Fava, apparso l'11 settembre il bellissimo articolo di Giorgio Fontana pubblicato dal Manifesto il 12 agosto.
L'UNITA', 11.09.2010
FURTI DI MEMORIA
Claudio Fava
I nostri eroi che se la sono cercata
In memoria grata di quelli che hanno preferito farsi gli affari del Paese a costo della vita: da Vassallo a Borsellino, da Ambrosoli a Falcone.
Anch’io ne conosco parecchi, come dice Andreotti, che se la sono cercata. Che invece di farsi gli affari loro, di calare la testa come giunchi di paglia aspettando che se ne andasse via la mala giornata, hanno avuto la sfrontatezza di far bene il loro mestiere: giornalisti, giudici, sindacalisti, commercianti, politici. Se l’è cercata, tre giorni fa, il sindaco Vassallo che invece di dire sempre no a quei galantuomini della camorra ogni tanto qualche “forse” poteva pure farlo sentire o no? Se la cercò Libero Grassi, diciamolo senza stare a girarci attorno: chi glielo portava, benedetto cristiano, ad andare in televisione per dire che lui il pizzo non l’avrebbe mai pagato? Glielo spiegò pure il presidente dei commercianti palermitani, usando come una profezia le stesse parole di Andreotti: che tu così te la stai cercando, lo sai? Forse lo sapeva, forse no: comunque lo ammazzarono tre giorni dopo.
Se l’è cercata Falcone, se l’è cercata Borsellino, se la sono cercata Terranova, Costa, Chinnici: potevano fare i giudici come si suggerisce adesso, processi corti, brevi, stretti, un occhio di riguardo a chi se lo merita, cassetti generosi per ingoiare e dimenticare i fascicoli più sfacciati. E invece no: la mafia, i mafiosi, gli amici intoccabili dei mafiosi… come un’ossessione, una compulsione, un’ansia di carriera. Ecco, professionisti. Nella vita e nella morte: se la sono cercata, questa loro bella morte, di che si vengono a lamentare oggi gli orfanelli?
Se la cercò pure il generale Dalla Chiesa, e su questo Andreotti era già stato allusivo quanto basta due giorni dopo che l’ ammazzarono. Venne a lagnarsi da me di suo figlio Nando, disse in un’ intervista, quel ragazzo gli dava solo dispiaceri... Mentiva, grossolanamente. Ma a tanti piacque credergli. E’ questo il punto.
Andreotti, amico conclamato di capi mafia che protesse e curò in salute per lo meno fino al 1980 (sta scritto nelle sentenze), interpreta un senso comune molto volgare ma molto diffuso. Che si esaurisce in due parole: cazzi loro. Di chi ha voluto fare l’eroe ad ogni costo, di chi s’è messo a fare il poeta, il don Chisciotte, il cacciatore di draghi e mulini a vento, il fustigatore di costumi. Cazzi suoi, se Ambrosoli se la volle prendere proprio con la P2 e Michele Sindona, il banchiere che salvò la lira (Andreotti dixit). Quando Giovanni Falcone, dopo l’attentato all’Addaura, cominciò ad andare incontro alla propria morte, il Giornale di Sicilia ricevette una letterina (che subito pubblicò, incorniciata come un Picasso) da parte di un gruppo di cittadini palermitani. Erano i vicini di casa del giudice e gli mandavano a dire che, orgogliosi delle sue battaglie, preferivano che se l’ andasse a combattere altrove: che se poi lo facevano saltare in aria davanti al portone com’era accaduto alla buon’anima di Rocco Chinnici, chi l’avrebbe pagato il conto per rifare l’intonaco alla facciata?
Andreotti, ormai prossimo a rendere conto a chi di dovere delle proprie verità e delle proprie menzogne, ha detto solo quello che pensa e che ha sempre pensato. Su Ambrosoli e su quanti hanno ritenuto, in questi anni, di dover mettere la vita al servizio della propria onestà intellettuale. Nella miseria di quelle sue parole, è stato sincero. E adesso possiamo girarci attorno quanto vogliamo, ma sappiamo che sono due idee di Italia inconciliabili tra loro: da una parte l’ex presidente del Consiglio, dall’altra Ambrosoli e quelli come lui.
In mezzo ci siamo noi, notai del nulla, pronti sempre a distinguere, a comprendere, a spiegare che è vero ma anche, ad ammirare i furbi, a sorridere di complicità su ogni volgarità, a maledire i Palazzi in attesa d’essere invitati a pranzo anche noi. E a trovare sempre un pretesto per parlar d’altro, per indignarci d’altro, per cambiare canale.
Non mi convincerete a chiamarlo senatore, il signor Andreotti. Né in questo pezzo né mai. Sono quelli come lui i veri clandestini della repubblica, non i nigeriani che sbarcano a nuoto sulle nostre spiagge. In fondo ce la siamo cercata anche noi, facendo finta per tutti questi anni che quelli come Andreotti siano stati davvero padri della patria. Non certo la nostra patria, non certo la mia patria.
11 settembre 2010
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"Gli italiani furono spesso accusati, a torto o a ragione, di non rispettare sufficientemente la verità. Va detto che poche persone in qualsiasi paese hanno per la verità un rispetto religioso; gli italiano non sono diversi dagli altri uomini. [...] Tuttavia, collettivamente, sembrano dimenticare, talora, l'importanza unica della verità. Spesso la ignorano, l'abbelliscono, vi ricamano intorno, la negano, a seconda dei casi."
Così Luigi Barzini, nel suo classico Gli italiani. Sono passati cinquant'anni, ma la frase sembra descrivere alla perfezione il presente. Allora lo spregio della verità è in realtà un tratto tipico della nostra storia? Chissà: in ogni caso, non mi pare abbia mai raggiunto forme gravi quanto quelle degli ultimi anni. Non è mai stato così istituzionalizzato e diffuso, reso sistema invece che norma di sopravvivenza quotidiana.
Ricordate il caso Di Bella? I media dicevano che la sua cura contro il cancro era miracolosa, quando in realtà tutti gli oncologi avevano espresso il massimo scetticismo. Ma Di Bella era televisivo, era perfetto, era un padre Pio laico della medicina. L'importante non erano i fatti quanto la comunicabilità di un evento. Era il 1997, e fu un simbolo evidente della tendenza progressiva a equiparare del parere degli esperti a quello di chiunque altro — purché interessante. Un po' come chiedere a Cannavaro cosa ne pensa di Saviano, e prendere la sua opinione per autorevole, perché uscita da una bocca celebre.
In questi casi, la verità non è il fine dell'indagine. Il fine dell'indagine è raccontare una storia. Cifra di questo atteggiamento è il trionfo della figura dell'opinionista: affondiamo in una quantità di pareri e idee senza una bussola in grado di orientarci correttamente verso i fatti. E mentre l'opinionismo è spacciato come è simbolo della libertà di parola e della democratica espressione dei propri giudizi, in realtà eleva il parere a verità — un arlecchino di giudizi che si scontrano, e fra le quali emerge solo quello più potente.
Poco tempo fa, la filosofa Franca d'Agostini ha pubblicato un saggio dal titolo eloquente: Verità avvelenata (Bollati Boringhieri 2010). L'idea è indagare le forme di argomentazione presenti nel discorso pubblico e mostrare, con esempi tratti per lo più da affermazioni di politici, quanto le fallacie logiche siano presenti ovunque nelle società democratiche, e in Italia oggi: "qualsiasi verità risulta fin da principio contaminata da uno sfondo di preliminare sospetto." Delegittimare, insultare, avvelenare l'intero pozzo del dibattito. Perché tutto questo? Ci sono delle ragioni generali (come il fatto, indicato dall'autrice, che le regole stesse del discorso razionale sono incerte), ma nel caso dell'Italia contemporanea ci sono anche ragioni più circostanziate. Contingenze storiche che hanno portato a quello che ritengo il segno più vasto della crisi democratica del Paese: lo spregio per la verità e la razionalità, il disinteresse per la buona argomentazione.
Come sempre, Berlusconi è insieme causa, sintomo e simbolo di questo problema. Nell'ormai classico articolo di Gomez e Travaglio uscito su "l'Espresso" il 13 maggio 2004, i due autori raccontano quarantaquattro bugie dette dal premier, "escludendo i 115 minuti di deposizione spontanea al processo Sme-Ariosto (durante il quale Berlusconi riuscì a pronunciare ben 85 bugie allo straordinario ritmo di una balla ogni 81 secondi)".
La cosa interessante che questo modo di ragionare — lo spregio totale per l'idea di verità — sembra aver attecchito un po' ovunque. Berlusconi, quando è cosciente di dire il falso, lo dice tranquillamente perché sa che ormai la verità non può sconfiggere più le sue affermazioni: non è, per così dire, attiva nel mondo. Quindi verità e falsità sono concetti che non interessano più — basta dire ciò che serve al momento, magari smentirlo domani, non ha importanza.
D'Agostini parla di "costruzione di una realtà2" basata sulla comunicazione e non sull'informazione, e il processo di tale costruzione è stato lungo e diabolicamente meticoloso, nel corso degli ultimi vent'anni. Ma la costante emissione di parainformazioni e il continuo vivere in una "realtà2" ha prodotto una risposta coerente da parte di chi ascolta, e la colpa non è limitabile a chi parla. In altri termini: si sta smarrendo l'idea di un pubblico etico, di un pubblico capace di recepire la verità. Credo sia questa la grande differenza marcata dal berlusconismo: l'erosione della verità ora è dolorosamente sociale e diffusa ovunque.
Come scrive Davide Tarizzo in un saggio dell'antologia Forme contemporanee del totalitarismo (Bollati Boringhieri 2007): "la sfera del senso viene completamente integrata e assorbita nella sfera dell'assenso. L'ambiguità è il suo sentimento più veritiero." In una politica dell'applauso, dove la claque sottolinea un fatto accettandolo e mettendolo in ostensorio, il dissenso o la critica perdono di valore. Ma è proprio dalla volontà di dubitare e mettere in discussione — dall'umiltà e l'incertezza — che nasce la ricerca seria.
Ora, questo spregio per la verità come bene non è cosa nuova, e ha un vago sentore democristiano. Nello splendido monologo de Il divo, Sorrentino mette in bocca ad Andreotti un'argomentazione di stampo cattolico: la massima responsabilità è salvare il bene facendo il male, ignorando la questione della verità. Una simile metafisica è la stessa, in fondo, del Grande Inquisitore di Dostoevskij: sacrificando la libertà per la legge, si assicura una pretesa salvezza.
Se questa interpretazione è corretta, potremmo dire che tale politica del falso era in "buona fede" — per quanto carica di molte responsabilità civili e umane. Al contrario, la torsione finale del berlusconismo è lo spregio della verità in quanto tale, per ragioni assolutamente private. Dire il vero non è un elemento pericoloso in una visione delle cose, ma soltanto un dato pratico che va eliminato, perché rischia di compromettere il regno della menzogna — del "fa' come ti pare". C'è dunque una palese tensione etica del falso, o meglio ancora dell'indifferenza verso la separazione tra vero e falso. Il potere< sommerge la verità, la rende inutile: a emergere è la soluzione più forte, più interessante o più supportata — non la più plausibile.
E sempre per questo motivo, la colpa è "dei magistrati" e "dei giornalisti". Perché "fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità" (sentenza n. 255/1992, presidente A. Corasaniti, redattore M. Ferri). E perché "è diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d'informazione e di critica, limitata dall'osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e della buona fede" (legge n. 69, 3/02/1963, art. 2). Di qui la necessità della legge bavaglio e della sua estensione ai blogger. Tout se tient: il tema della verità è il filo rosso per comprendere l'inabissarsi della nostra etica pubblica.
Come reagire?
Alcuni pensano sia necessario un esame critico dell'idea di verità. Ad esempio Gianni Vattimo, che nel suo Addio alla verità (Meltemi 2009) propone di abbandonare questo concetto. Il ragionamento suona più o meno così: visto che c'è stato e c'è un uso ampiamente strumentale del vero come corrispondenza ai fatti, e uno svilimento totale del suo valore, la cosa migliore è lasciarlo perdere. Non ci sono verità disinteressate, l'oggettività è sempre schiava di determinati interessi. Qui Vattimo compie due errori tipici del relativismo: pensare che tutta la verità si riduca a Verità assolute (quelle religiose o di etica generale), e ritenere che in ogni caso ogni affermazione di verità corrisponda all'imposizione di una pretesa di dominio.
Ma questa è una reazione figlia della crisi, e non risolve nulla. Porta anzi ad assurdità palesi, come quando Vattimo parla della ricerca scientifica: "Magari [questi scienziati] cercano solo di vincere il premio Nobel, e anche questo è un interesse" (p. 25). Una conclusione che lascia quantomeno a bocca aperta.
Inoltre, c'è una miriade di verità con la "v" minuscola che sono perfettamente neutrali e sulle quasi ci basiamo ogni giorno: perché trascurarle? Pensare che chiunque dica il vero si arroghi una pretesa di dominio sull'altro — come se non esistesse alcuna verità condivisibile, come se lo stesso concetto uccida qualunque forma di dialogo o scetticismo — è un rimedio peggiore del male.
E allora, non sembra esserci atra prospettiva che quella di tornare alla buona vecchia etica della verità. La comprensione critica e morale del mondo non può che passare da questo concetto: minimale quanto si vuole, ma indispensabile. Che si tratti di comprare un chilo di pesche, o di dibattere attorno ai temi della bioetica.
Si può obiettare che non è affatto un compito facile. Certo: è estremamente delicato e comporta molti problemi: la responsabilità di fissare dei limiti, di trovare delle basi comuni, di argomentare con chiarezza, di fidarsi di determinati esperti, e soprattutto l'eterno rischio di sbagliare o cadere nella presunzione.
Ma questa è la condizione umana. Possiamo divorare il loto dell'egoismo e fregarcene che l'opinione pubblica venga inquinata dalla falsità. Oppure, possiamo accettare che bene e verità siano cose fragili e complesse, ma proprio per questo così bisognose d'attenzione. La scelta è solo nostra. Compiamola con responsabilità.
giorgio.fontana81@gmail.com
IL MANIFESTO, 12.08.2010
La verità ai tempi di Berlusconi
GIORGIO FONTANA
martedì 7 settembre 2010
vigilia di capodanno e se non son matti non li vogliamo
domani sera , anzi questa sera, perchè ormai sono le tre del mattino e faccio una certa fatica ad addormentarmi, è rosh hashana , che poi sarebbe il capodanno ebraico,e quest'anno sarà lunghissimo perchè subito dopo è sabato.
Noi lo passeremo con figli e nipoti che ormai sono diventati vicini di casa e quindi ci vogliono da loro ; io ho cucinato per tutto il giorno cibi vari da portare lì e subito dopo sono andata a una dimostrazione contro la deportazione (non riesco a trovare un'altra parola) di bambini di immigrati senza permesso che dovrebbe iniziare domani, of all days: la deportazione è stata voluta dal ministro eli ishai, un ultraortodosso.
non posso credere che succederà veramente.
a metà dimostrazione sono scappata di corsa a casa per aspettare una soldatessa che come ogni anno ci porta il regalo che un ufficiale dell'esercito , che era stato il comandante diretto di Joni, ci fa avere per capodanno, oltre al miele e ai cioccolatini che arrivano, come a tutti i genitori dei caduti, dal ministro della difesa.
ma il sapore amaro mi è rimasto in bocca.
un gran numero di ultraortodossi sta partendo in queste ore per L'ucraina per pregare sulla tomba del rabbino Rabi Nahman di Breslav .
Fatti loro. solo che alcuni dei signori, (le foto, in prima pagina sul quotidiano Yediot Aharonot sono state prese in aereoporto), hanno il viso coperto da un velo nero, peggio dei talebani, perchè non gli scappi di guardare una donna e farsi venire cattivi pensieri.
e per finire, un altro bellissimo pezzo scritto da Aldo Baquis per l'ansa .
ISRAELE, CANTANTE PENITENTE FLAGELLATO DA RABBINI
ORTODOSSI COL FRUSTINO DESTANO IRONIA
(ANSA) - TEL AVIV, 31 AGO - Desta clamore negli ambienti
ortodossi israeliani il recupero di una antica pratica religiosa
basata sulla flagellazione del peccatore.
L'iniziativa e' giunta da un rabbino molto controverso,
Amnon Ytzhak, celebre per la sue spiccate doti di 'comunicatore'
ed abile manipolatore dei mezzi di comunicazione di massa, fra
cui internet.
Il suo sito web 'Shofar' propone il video della
flagellazione - avvenuta nei giorni scorsi - di un cantante
ortodosso che e' fra i seguaci del rabbino Yitzhak, Erez
Yehieli. Questi si e' sottoposto di buon grado alla punizione
per espiare - ha spiegato - ''i suoi trascorsi peccaminosi''
negli anni di gioventu' in cui era laico.
Il video mostra il rabbino Yitzhak e il rabbino Ben-Zion
Muzafi mentre sono assorti a compulsare i testi sacri dai quali
desumono l'autorita' morale di percuotere il penitente. Dopo
aver pronunciato la formula di rito il rabbino Muzafi consegna
al figlio - pure un ebreo timorato - uno staffile di pelle di
toro e di asino. Nell'utilizzarlo, gli spiega, non dovra'
sentirsi in colpa ''essendo solo uno strumento del volere
divino''.
La telecamera non mostra direttamente le 39 staffilate
imposte a Yehieli. Ma la sua immagine si riflette sulla vetrina
di una libreria e consente di concludere che si e' trattato di
una flagellazione puramente simbolica, che non ha arrecato alcun
danno fisico.
Al termine della cerimonia i rabbini Yitzhaki e Muzafi si
sono congratulati con Yehieli e gli hanno augurato di cuore che
un giorno possa esibirsi ''di fronte al Messia, nel ricostruito
Tempio di Gerusalemme''.
La stampa ortodossa - che considera il rabbino Yitzhak un
elemento molto 'sui generis' - prende generalmente le distanze
dalla singolare cerimonia. In un sito web ortodosso uno dei
lettori annuncia con sferzante ironia l'inaugurazione di una
'sado-sinagoga'. Proseguendo sulla stessa linea di pensiero il
lettore aggiunge che ''i rabbini col frustino'' dovrebbero
almeno vestirsi in maniera adeguata: ''Ad esempio - suggerisce -
con vestiti di pelle, neri e molto attillati''
Noi lo passeremo con figli e nipoti che ormai sono diventati vicini di casa e quindi ci vogliono da loro ; io ho cucinato per tutto il giorno cibi vari da portare lì e subito dopo sono andata a una dimostrazione contro la deportazione (non riesco a trovare un'altra parola) di bambini di immigrati senza permesso che dovrebbe iniziare domani, of all days: la deportazione è stata voluta dal ministro eli ishai, un ultraortodosso.
non posso credere che succederà veramente.
a metà dimostrazione sono scappata di corsa a casa per aspettare una soldatessa che come ogni anno ci porta il regalo che un ufficiale dell'esercito , che era stato il comandante diretto di Joni, ci fa avere per capodanno, oltre al miele e ai cioccolatini che arrivano, come a tutti i genitori dei caduti, dal ministro della difesa.
ma il sapore amaro mi è rimasto in bocca.
un gran numero di ultraortodossi sta partendo in queste ore per L'ucraina per pregare sulla tomba del rabbino Rabi Nahman di Breslav .
Fatti loro. solo che alcuni dei signori, (le foto, in prima pagina sul quotidiano Yediot Aharonot sono state prese in aereoporto), hanno il viso coperto da un velo nero, peggio dei talebani, perchè non gli scappi di guardare una donna e farsi venire cattivi pensieri.
e per finire, un altro bellissimo pezzo scritto da Aldo Baquis per l'ansa .
ISRAELE, CANTANTE PENITENTE FLAGELLATO DA RABBINI
ORTODOSSI COL FRUSTINO DESTANO IRONIA
(ANSA) - TEL AVIV, 31 AGO - Desta clamore negli ambienti
ortodossi israeliani il recupero di una antica pratica religiosa
basata sulla flagellazione del peccatore.
L'iniziativa e' giunta da un rabbino molto controverso,
Amnon Ytzhak, celebre per la sue spiccate doti di 'comunicatore'
ed abile manipolatore dei mezzi di comunicazione di massa, fra
cui internet.
Il suo sito web 'Shofar' propone il video della
flagellazione - avvenuta nei giorni scorsi - di un cantante
ortodosso che e' fra i seguaci del rabbino Yitzhak, Erez
Yehieli. Questi si e' sottoposto di buon grado alla punizione
per espiare - ha spiegato - ''i suoi trascorsi peccaminosi''
negli anni di gioventu' in cui era laico.
Il video mostra il rabbino Yitzhak e il rabbino Ben-Zion
Muzafi mentre sono assorti a compulsare i testi sacri dai quali
desumono l'autorita' morale di percuotere il penitente. Dopo
aver pronunciato la formula di rito il rabbino Muzafi consegna
al figlio - pure un ebreo timorato - uno staffile di pelle di
toro e di asino. Nell'utilizzarlo, gli spiega, non dovra'
sentirsi in colpa ''essendo solo uno strumento del volere
divino''.
La telecamera non mostra direttamente le 39 staffilate
imposte a Yehieli. Ma la sua immagine si riflette sulla vetrina
di una libreria e consente di concludere che si e' trattato di
una flagellazione puramente simbolica, che non ha arrecato alcun
danno fisico.
Al termine della cerimonia i rabbini Yitzhaki e Muzafi si
sono congratulati con Yehieli e gli hanno augurato di cuore che
un giorno possa esibirsi ''di fronte al Messia, nel ricostruito
Tempio di Gerusalemme''.
La stampa ortodossa - che considera il rabbino Yitzhak un
elemento molto 'sui generis' - prende generalmente le distanze
dalla singolare cerimonia. In un sito web ortodosso uno dei
lettori annuncia con sferzante ironia l'inaugurazione di una
'sado-sinagoga'. Proseguendo sulla stessa linea di pensiero il
lettore aggiunge che ''i rabbini col frustino'' dovrebbero
almeno vestirsi in maniera adeguata: ''Ad esempio - suggerisce -
con vestiti di pelle, neri e molto attillati''
lunedì 6 settembre 2010
e rieccomi a tel aviv
in aereo, tornando a casa, già leggevo nel giornale di quel giorno dell'uccisione di una coppia di coloni , genitori di 6 figli dai cinque anni in su ,da parte di di -pare- terroristi del Hamas. le loro foto si confondevano con quelle di altri morti ammazzati :un giovane e di un'altra famiglia, tutti coloni, uccisi- mi pare, un giorno o due prima , mentre dalle altre pagine sorridevano Bibi, Obama e Abu Mazen a Washington. mi sono ranicchiata sul sedile, ho chiuso gli occhi cercando solo di dormire.
il mondo mi sembra coperto da una grande nuvola nera.
aggiungo qui un bellissimo articolo scritto da Aldo Baquis per l'ansa e un limk.
ve li consiglio entrambi.
MO: MISSIONE IMPOSSIBILE, SALVATO IL PICCOLO MOHAMMAD / ANSA
LA SOLIDARIETA' TRA ISRAELE E GAZA ALL'EPOCA DI PIOMBO FUSO
(di Aldo Baquis)
(ANSA) - TEL AVIV, 5 SET - Un documentario sulla lotta
accanita condotta da un ospedale israeliano per salvare la vita
di un bambino di Gaza nei mesi precedenti l'operazione Piombo
Fuso contro Hamas desta interesse e commozione in Israele, anche
perche' mette in luce alcuni degli aspetti paradossali del
conflitto.
Alle prime proiezioni nella Cinemateca di Tel Aviv la sala
era stracolma. Il regista Shlomi Eldar (un reporter della
televisione commerciale Canale 10) riceve centinaia di messaggi
di sostegno. Il New York Times ne ha scritto in termini
elogiativi e il festival Toronto lo presentera' presto.
In una conversazione con l'ANSA, Eldar ha spiegato che il
film ''Vita Preziosa'' e' nato per caso quando lui stesso ha
ricevuto nello studio televisivo la telefonata urgente del
dottor Raz Somech, dell'ospedale Tel Hashomer di Tel Aviv. Nel
dipartimento di Emato-oncologia era ricoverato un bambino di
Gaza di quattro mesi, con una grave deficienza immunologica.
''Per il piccolo Mohammed Abu Mustafa e' questione di giorni se
non troviamo i fondi per la operazione'', aveva avvertito il
dottore.
Come nelle fiabe, il servizio di Eldar va in onda ed uno
spettatore, padre di un militare israeliano ucciso in guerra,
chiama subito lo studio televisivo. I cinquantamila dollari
necessari a salvare Muhammad, dice, li mette volentieri.
Ma il documentario ('preciouslifemovie.com') e' ben altro che
una fiaba. La madre del piccolo, Raida, per la prima volta in
Israele, teme all'inizio di essere uccisa 'dal nemico'. Il
midollo dei familiari necessario a Mohammad compie itinerari
complessi per superare 100 chilometri di barriere e valichi fra
la Striscia e Tel Aviv. Come in tutte le vicende mediche,
momenti di gioia si alternano con quelli di sconforto, anche per
lo stesso Eldar. L'abnegazione di tutti consente infine al
piccolo di tornare a Khan Yunes, a sud di Gaza. Ma con una
svolta grottesca il conflitto cerchera' di rovinare la morale
edificante dell'episodio: il dottor Somech sara' richiamato come
riservista, nella operazione Piombo Fuso, fra le forze che
assediano Gaza mentre Raida e il piccolo Mohammad dovranno
rannicchiarsi in un angolo di casa per sfuggire ai
bombardamenti. Nei mesi successivi, Mohammad e' riuscito a
superare questa ed altre prove.
Per vent'anni Eldar ha seguito sul terreno gli eventi di
Gaza. Ma dal 2007, con il putsch militare di Hamas, non puo'
piu' entrare per motivi di sicurezza. Nel 2008, una settimana
prima di Piombo Fuso, riusci' egualmente a entrare di straforo a
bordo di una nave con aiuti umanitari di 'Free Gaza'. Ma fu un
dirigente di Hamas, Mahmud a-Zahar, a dirgli che per lui il
terreno scottava sotto ai piedi: in quanto israeliano, rischiava
di essere rapito da gruppi oltranzisti, doveva rientrare
immediatamente in Israele. Da allora Eldar segue Gaza a distanza
con una troupe locale, palestinese. ''Hamas e' al corrente, e
non ci ostacola''.
A Gaza Eldar ha ancora amici e conoscenti. ''C'era un tempo -
ricorda con nostalgia - in cui gli israeliani andavano a Gaza e
i palestinesi lavoravano qui. La gente si conosceva, gli uni
apprezzavano le qualita' degli altri, c'era anche un senso di
solidarieta' ''. Adesso e' rimasto solo un abisso. ''Peggio
ancora: la nuova generazione di Gaza non ha piu' alcuna
conoscenza di Israele, a prescindere dagli aerei da
combattimento o da quello che vedono alla tv''. Lo stesso vale
per gli israeliani. ''Da qui - lamenta - nasce la demonizzazione
dell'altro, l'indifferenza per le sue sofferenze''. Quello che
resta fra Israele e Gaza, in conclusione, e' il 'cordone
ombelicale' del valico di Erez dove ogni settimana decine di
madri come Raida passano per curare i figli negli ospedali di
Ashqelon, Tel Aviv, Gerusalemme. Una fiammella di speranza e di
umanita' di cui ''Vita Preziosa'' cerca di parlare perche' dai
due versanti del valico di Erez non vada persa la speranza.
(ANSA).
05-SET-10 15:55 NNNN
e questo è il link del documentario:
preciouslifemovie.com (fra parentesi, la bellissima colonna sonora e' di Yehuda Poliker)
il mondo mi sembra coperto da una grande nuvola nera.
aggiungo qui un bellissimo articolo scritto da Aldo Baquis per l'ansa e un limk.
ve li consiglio entrambi.
MO: MISSIONE IMPOSSIBILE, SALVATO IL PICCOLO MOHAMMAD / ANSA
LA SOLIDARIETA' TRA ISRAELE E GAZA ALL'EPOCA DI PIOMBO FUSO
(di Aldo Baquis)
(ANSA) - TEL AVIV, 5 SET - Un documentario sulla lotta
accanita condotta da un ospedale israeliano per salvare la vita
di un bambino di Gaza nei mesi precedenti l'operazione Piombo
Fuso contro Hamas desta interesse e commozione in Israele, anche
perche' mette in luce alcuni degli aspetti paradossali del
conflitto.
Alle prime proiezioni nella Cinemateca di Tel Aviv la sala
era stracolma. Il regista Shlomi Eldar (un reporter della
televisione commerciale Canale 10) riceve centinaia di messaggi
di sostegno. Il New York Times ne ha scritto in termini
elogiativi e il festival Toronto lo presentera' presto.
In una conversazione con l'ANSA, Eldar ha spiegato che il
film ''Vita Preziosa'' e' nato per caso quando lui stesso ha
ricevuto nello studio televisivo la telefonata urgente del
dottor Raz Somech, dell'ospedale Tel Hashomer di Tel Aviv. Nel
dipartimento di Emato-oncologia era ricoverato un bambino di
Gaza di quattro mesi, con una grave deficienza immunologica.
''Per il piccolo Mohammed Abu Mustafa e' questione di giorni se
non troviamo i fondi per la operazione'', aveva avvertito il
dottore.
Come nelle fiabe, il servizio di Eldar va in onda ed uno
spettatore, padre di un militare israeliano ucciso in guerra,
chiama subito lo studio televisivo. I cinquantamila dollari
necessari a salvare Muhammad, dice, li mette volentieri.
Ma il documentario ('preciouslifemovie.com') e' ben altro che
una fiaba. La madre del piccolo, Raida, per la prima volta in
Israele, teme all'inizio di essere uccisa 'dal nemico'. Il
midollo dei familiari necessario a Mohammad compie itinerari
complessi per superare 100 chilometri di barriere e valichi fra
la Striscia e Tel Aviv. Come in tutte le vicende mediche,
momenti di gioia si alternano con quelli di sconforto, anche per
lo stesso Eldar. L'abnegazione di tutti consente infine al
piccolo di tornare a Khan Yunes, a sud di Gaza. Ma con una
svolta grottesca il conflitto cerchera' di rovinare la morale
edificante dell'episodio: il dottor Somech sara' richiamato come
riservista, nella operazione Piombo Fuso, fra le forze che
assediano Gaza mentre Raida e il piccolo Mohammad dovranno
rannicchiarsi in un angolo di casa per sfuggire ai
bombardamenti. Nei mesi successivi, Mohammad e' riuscito a
superare questa ed altre prove.
Per vent'anni Eldar ha seguito sul terreno gli eventi di
Gaza. Ma dal 2007, con il putsch militare di Hamas, non puo'
piu' entrare per motivi di sicurezza. Nel 2008, una settimana
prima di Piombo Fuso, riusci' egualmente a entrare di straforo a
bordo di una nave con aiuti umanitari di 'Free Gaza'. Ma fu un
dirigente di Hamas, Mahmud a-Zahar, a dirgli che per lui il
terreno scottava sotto ai piedi: in quanto israeliano, rischiava
di essere rapito da gruppi oltranzisti, doveva rientrare
immediatamente in Israele. Da allora Eldar segue Gaza a distanza
con una troupe locale, palestinese. ''Hamas e' al corrente, e
non ci ostacola''.
A Gaza Eldar ha ancora amici e conoscenti. ''C'era un tempo -
ricorda con nostalgia - in cui gli israeliani andavano a Gaza e
i palestinesi lavoravano qui. La gente si conosceva, gli uni
apprezzavano le qualita' degli altri, c'era anche un senso di
solidarieta' ''. Adesso e' rimasto solo un abisso. ''Peggio
ancora: la nuova generazione di Gaza non ha piu' alcuna
conoscenza di Israele, a prescindere dagli aerei da
combattimento o da quello che vedono alla tv''. Lo stesso vale
per gli israeliani. ''Da qui - lamenta - nasce la demonizzazione
dell'altro, l'indifferenza per le sue sofferenze''. Quello che
resta fra Israele e Gaza, in conclusione, e' il 'cordone
ombelicale' del valico di Erez dove ogni settimana decine di
madri come Raida passano per curare i figli negli ospedali di
Ashqelon, Tel Aviv, Gerusalemme. Una fiammella di speranza e di
umanita' di cui ''Vita Preziosa'' cerca di parlare perche' dai
due versanti del valico di Erez non vada persa la speranza.
(ANSA).
05-SET-10 15:55 NNNN
e questo è il link del documentario:
preciouslifemovie.com (fra parentesi, la bellissima colonna sonora e' di Yehuda Poliker)
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