è uscito in Italia sull'Unità.
in Israele sarebbe di interesse a pochissimi.
Eppure Sari Nusseibeh ha ragione.
Per una nazione senza Stato, la difesa della propria identità e dei luoghi che l’incarnano acquista una duplice valenza: politica e simbolica. Non si tiri in ballo il fondamentalismo islamico per spiegare le proteste che si stanno propagando da Hebron a Gerusalemme. Alla base vi è un misto di rabbia e dignità di coloro che si aggrappano al passato per difendere il loro futuro». Ad affermarlo è una colomba palestinese: Sari Nusseibeh, rettore dell’Università Al Quds di Gerusalemme Est, considerato, a ragione, il più autorevole intellettuale palestinese.
Professor Nusseibeh, nel suo libro “C’era una volta un Paese. Una vita in Palestina” (Il Saggiatore, 2009), lei chiede: «Al cuore del conflitto israelo-palestinese non c’è forse proprio l’incapacità di immaginare la vita dell’”altro”»?
«Credo fortemente in questo assunto. E mi ritrovo molto in una riflessione che i più grandi scrittori israeliani consegnarono ad un appello all’opinione pubblica e ai governanti d’Israele: c’era scritto che per Israele sarebbe stato meno doloroso cedere delle terre che riconoscere che la creazione del loro Stato nasceva da una ferita inferta al popolo palestinese. È profondamente vero. Per questo considero la colonizzazione culturale non meno grave dell’espropriazione di terre. La pace è innanzitutto riconoscere l’esistenza dell’altro, della sua storia, della sua identità. Riconoscere quanto fosse sbagliata l’affermazione che la «Palestina è una terra senza popolo per un popolo senza terra». Questo, naturalmente, vale anche per noi palestinesi verso Israele. Nel libro riflettevo sul fatto che io ero cresciuto a non più di 30 metri dal luogo in cui Amos Oz aveva trascorso l’infanzia. Quando pensavo all’assenza di arabi nelle esperienze giovanili di Oz, ero costretto a riflettere anche sul modo in cui ero stato cresciuto. Cosa sapevano i miei genitori del suo mondo? Sapevano dei campi di sterminio? Le due parti, ciascuna immersa nella propria tragedia, non erano indifferenti, se non addirittura ostili, alle esperienze dell’altro»? Queste domande a quali conclusioni l’hanno portato?
«A insistere sull’importanza del dialogo dal basso, capace di coinvolgere le università, le scuole, insegnanti e studenti palestinesi e israeliani. La conoscenza dell’”altro” è il miglior antidoto contro il “virus” della demonizzazione».
Questo virus è rintracciabile nella decisione del governo di Benyamin Netanyahu di includere fra i luoghi del patrimonio storico ebraico da tutelare anche due santuari che si trovano in Cisgiordania (la Tomba di Rachele di Betlemme e la Tomba dei Patriarchi di Hebron) considerati Luoghi santi anche per l’Islam?
«Direi proprio di sì. Ed è un virus che nulla ha a che vedere con ragioni di sicurezza, e molto, invece, con una visione messianica che la destra nazionalista israeliana ha d’Israele. Una visione totalizzante che non ammette che un altro popolo rivendichi in Palestina diritti inalienabili, che sono propri di una nazione in cerca di Stato. Una nazione che non rinuncia alla sua storia».
La Tomba dei Patriarchi; la Tomba di Rachele; il Muro del pianto; la Spianata delle Moschee... Cos’è la religione nella tormentata Terrasanta?
«Da entrambi i lati del Muro, la religione è strumento di politica: ma che sia l’Isacco della Torah o l’Ismaele del Corano, Dio impedisce a Abramo di sacrificare suo figlio. È questo il comandamento più vero, quello più disatteso...».
Cosa la spaventa di più dei fondamentalismi che scuotano la sua terra? «È l’assolutizzazione del loro pensiero; l’assenza nel loro vocabolario, etico e politico, di parole come dialogo, compromesso, rispetto. È la bramosia di possesso assoluto. È concepire chi dissente come un traditore».
Nel suo libro “Contro il fanatismo”, Amos Oz fa l’elogio della parola compromesso come “sinonimo di vita”. E afferma che il contrario di compromesso “è fanatismo, morte”. «Condivido, con un’aggiunta:se la pace è un incontro a metà strada, oggi è Israele a dover compiere il tratto maggiore. Perché è il più forte a doversi liberare di un’illusione».
Quale, professor Nusseibeh?
«Quella di poter imboccare una scorciatoia militare – intesa non solo come pratica ma anche come cultura militarista – per risolvere d’imperio la questione palestinese. E lo dice uno che si è battuto a viso aperto contro la deriva armata della seconda Intifada. Fare i conti con la storia significa anche riconoscere da parte israeliana che la ragione principale del sangue versato in questi anni è nell’occupazione dei Territori. Perciò ai miei amici israeliani ripeto sempre che una pace giusta con noi palestinesi non è una gentile concessione che ci fanno ma il più serio investimento che possano fare sul loro futuro».
C’è ancora spazio per una pace fondata su due Stati? «Questo spazio si riduce man mano che si riduce lo spazio territoriale su cui l’ipotetico Stato di Palestina dovrebbe sorgere. In fondo, il disegno perseguito da Netanyahu è lo stesso di molti suoi predecessori: trascinare il negoziato alle calende greche e nel frattempo svuotarlo di ogni significato concreto. Come? Trasformando gli insediamenti in vere e proprie città. E poi dire: come posso cancellarle? Alla fine vorrebbero che i palestinesi si accontentassero di uno Stato-francobollo. E se dovessimo rifiutare, ecco pronta l’accusa: vedete, sono incontentabili».
A proposito di compromessi: tra i nodi da sciogliere c’è quello del diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi... «Israele riconosca che questo è un problema politico e non “umanitario”. Risarcisca innanzitutto la loro storia, ammetta che c’è un fondamento alla Nakba (Catastrofe, così i palestinesi ricordano l’inizio della cacciata dai loro villaggi il 15 maggio 1948, ndr) invece di cancellarla dai libri di scuola degli studenti arabi israeliani. È questa la premessa per trovare un compromesso».
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